IL TRIBUNALE
   Decidendo  nel processo penale n. 3576/1996 r.g. a carico di Tresca
 Alexander, imputato dei reati di cui agli artt. 74, comma  2,  d.P.R.
 n.  309/1990 (capo c); artt. 110, 81 cpv c.p., artt. 73, comma 4, 80,
 comma 2, d.P.R. n. 309/1990 (capo d); art. 81 cpv c.p., artt.  2,  4,
 7,  legge  n.  859  del  1967, art. 23, commi 3 e 4, legge n. 110 del
 1975;
                             O s s e r v a
   1. - Il 14 maggio 1997 il tribunale,  sentite  le  richieste  delle
 parti,  emetteva  ordinanza  di  ammissione delle prove, tra le quali
 l'esame degli imputati in procedimento connesso Scisciola  Salvatore,
 Mori  Vincenzo, Massa Bruno, Vaglica Sergio, Santu Raimondo, Falcetta
 Marco e Di Gaetano Antonino e Leonardi Adamo.
   Alla  stessa  udienza  si  presentava  per  l'esame  l'imputato  in
 procedimento connesso Mori Vincenzo che si sottoponeva ad esame.
   Il 22 ottobre scorso venivano citati e si presentavano gli imputati
 in  procedimento connesso Massa, Scisciola, Vaglica, Santu, Falcetta,
 Di Gaetano, dei quali solo il primo accettava di sottoporsi ad esame.
 Il pubblico ministero chiedeva acquisirsi le dichiarazioni  di  tutti
 gli  imputati  in  procedimento  connesso  che si erano avvalsi della
 facolta' di non rispondere, ad eccezione di quelle del Di Gaetano, in
 ordine alle quali si riservava la richiesta di  lettura;  la  difesa,
 dal   canto   suo,   prestava   il  consenso  all'acquisizione  delle
 dichiarazioni del Falcetta,  del  Santu,  del  Leonardi,  mentre  non
 prestava il consenso alla lettura ed acquisizione delle dichiarazioni
 dello Scisciola.
   All'udienza odierna il pubblico ministero chiedeva la lettura delle
 dichiarazioni  rese  avanti al suo ufficio dal Di Gaetano e la difesa
 non prestava il consenso.
   2. - Rilevanza della questione di legittimita'  concernente  l'art.
 513  c.p.p.  come  sostituito  dall'art.  1 legge n. 267 del 7 agosto
 1997.
   Risulta evidente, nel caso di specie, la rilevanza della  questione
 di  legittimita'  costituzionale del disposto dell'art. 513, comma 2,
 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n.  267  del  1997,  poiche'
 l'esame  dello  Scisciola  e del Di Gaetano e' gia' stato ammesso dal
 tribunale che ha ritenuto rilevante detto mezzo  di  prova  -  atteso
 che,  nella prospettazione accusatoria, le dichiarazioni del predetto
 sono dedotte a conforto di quelle del Massa e del Mori - e  la  norma
 in   questione   subordina   l'acquisizione   al   fascicolo  per  il
 dibattimento delle dichiarazioni dei predetti - che si  sono  avvalsi
 della  facolta' di non rispondere - al consenso delle parti, cioe' al
 verificarsi di una condizione la cui previsione normativa e'  appunto
 oggetto del sospetto di illegittimita'.
   Pervero,   la  rilevanza  della  questione  si  apprezza  non  solo
 relativamente  alle  dichiarazioni  degli  imputati  in  procedimento
 connesso  rispetto  alle  quali il consenso non e' stato prestato, ma
 anche in relazione a  quelle  rispetto  alle  quali  il  consenso  e'
 intervenuto,  laddove  si  consideri  che proprio l'esistenza di tale
 consenso costituisce, in base al disposto del comma 2  dell'art.  513
 c.p.p.,  condicio  sine qua non della lettura e dell'acquisizione dei
 relativi verbali.
   Ritiene tuttavia questo Collegio  che,  a  fronte  delle  eccezioni
 riguardanti  l'art.  513,  comma  2, c.p.p., se ne ponga un'altra, di
 carattere preliminare, circa la conformita' al dettato costituzionale
 degli  artt.  210,  comma  4,  e  513  c.p.p.  nella  parte  in   cui
 attribuiscono, alle persone indicate ai commi 1 e 6 dello stesso art.
 210  c.p.p.,  la facolta' di non rispondere alle domande loro rivolte
 dalle parti in dibattimento con riferimento a fatti  a  carico  degli
 imputati  descritti  dalle  predette persone in dichiarazioni rese al
 pubblico ministero  nel  corso  delle  indagini.  Tale  questione  e'
 rilevante  nel  presente  processo  poiche',  come  si  e'  detto,  i
 succitati imputati in procedimento connesso si sono avvalsi  di  tale
 facolta'.
   3. - Interpretazione dell'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art.
 1 della legge n. 267 del 1997 e dell'art. 6, commi 1 e 2 della stessa
 legge.
   L'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997
 dispone:
     "1)  Il  giudice,  se  l'imputato  e'  contumace o assente ovvero
 rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta  di  parte  che
 sia  data  lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato
 al pubblico ministero  o  alla  polizia  giudiziaria  su  delega  del
 pubblico  ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari
 o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono  essere
 utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso.
     2)  Se  le  dichiarazioni  sono state rese dalle persone indicate
 nell'art. 210, il giudice, a richiesta di parte, dispone,  secondo  i
 casi,   l'accompagnamento   coattivo  del  dichiarante  o  l'esame  a
 domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla  legge  con
 le  garanzie  del  contraddittorio.  Se  non e' possibile ottenere la
 presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei  modi
 suddetti,  si  applica  la  disposizione  dell'art.  512  qualora  la
 impossibilita'  dipenda  da  fatti  o  circostanze  imprevedibili  al
 momento delle dichiarazioni.  Qualora il dichiarante si avvalga della
 facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali
 contenenti  le  suddette  dichiarazioni  soltanto con l'accordo delle
 parti.
     3) Se le dichiarazioni di  cui  ai  commi  1  e  2  del  presente
 articolo  sono  state assunte ai sensi dell'art. 392, si applicano le
 disposizioni di cui all'art. 511".
   Come  e'  evidente  la  norma,  con  riferimento   alla   posizione
 dell'imputato  in  procedirnento  connesso  -  che e' l'unica che qui
 rileva - e' finalizzata ad ottenerne la presenza in dibattimento  per
 poter  sottoporre  il  medesimo  ad esame e, quando questi si avvalga
 della facolta' di non rispondere,  prevede  come  condizione  per  la
 lettura   (e   la   conseguente  acquisizione  al  fascicolo  per  il
 dibattimento) delle dichiarazioni indicate al comma 1,  l'accordo  di
 tutte le parti presenti nel processo.
   Indirettamente  ma  chiaramente,  percio',  la  norma attribuisce a
 ciascuna delle parti il potere di vietare la lettura,  l'acquisizione
 e l'utilizzazione delle dichiarazioni sopra indicate.
   Si  tratta  percio'  di  una  disposizione  che,  nel  procedimento
 probatorio, regola la fase di acquisizione della prova.
   L'art. 6, commi 1 e 2, legge n. 267 del 1997 prevedono:
     "1) Nei procedimenti penali in corso il pubblico  ministero  puo'
 avvalersi  della  facolta' di cui al comma 1, lett. c) e d) dell'art.
 392 del codice di procedura penale, come modificate dall'art. 4 della
 presente legge, anche dopo l'esercizio dell'azione penale, se  ne  fa
 richiesta al giudice delle indagini preliminari entro sessanta giorni
 dalla data di entrata in vigore della presente legge.
     2) Nel giudizio di primo grado in corso, quando e' stata disposta
 la  lettura,  nei  confronti  di  altri  senza  il loro consenso, dei
 verbali delle dichiarazioni, rese dalle  persone  indicate  nell'art.
 513  del  codice  di  procedura  penale  al  pubblico ministero, alla
 polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel  corso  delle
 indagini  preliminari  o  dell'udienza  preliminare,  ove le parti lo
 richiedano, il giudice dispone la citazione  delle  predette  persone
 per un nuovo esame".
   Nell'ordinanza  emessa  il  24 ottobre 1997, nel processo penale n.
 1944/95 r.g. a carico di Semila Ottavio  e  Scordo  Vincenzo,  questo
 tribunale  aveva  ritenuto  che,  con  riferimento alle dichiarazioni
 degli imputati in procedimento connesso di cui non fosse  stata  data
 lettura,  risultasse  applicabile  la  disciplina ordinaria stabilita
 dall'art. 513, comma 3 c.p.p. come sostituito dall'art. 1,  legge  n.
 267  del  1997,  senza  che al pubblico ministero fosse consentito di
 chiedere l'incidente probatorio nella fase processuale  in  cui  quel
 processo versava - quella della istruttoria dibattimentale, come tale
 successiva all'emissione dell'ordinanza ex art. 495 c.p.p.
   Tale  posizione  era stata motivata osservando che "nel corso della
 celebrazione  del  dibattimento,   non   e'   nemmeno   prospettabile
 l'esigenza  di  anticipare le forme di assunzione della prova che gli
 sono  proprie  al  fine  di  evitare  la   perdita   di   una   prova
 presumibilmente   non  rinnovabile  in  futuro".  Esistono,  pervero,
 motivazioni ulteriori per sostenere una posizione simile, ovvero  che
 -  se  l'incidente  probatorio fosse ammissibile - si conferirebbe ad
 una sola parte il  potere  di  deprivare  il  giudice  dell'immediato
 contatto  con la prova nel momento della sua genesi e si rischierebbe
 altresi' di sottrargli il potere di  fare  nuove  domande  (art.  506
 c.p.p.).   Tuttavia, anche a fronte di un piu' approfondito esame dei
 lavori preparatori della legge di cui si discute, non si puo'  negare
 che  il  legislatore abbia voluto - mediante l'inserimento della lata
 dizione di cui  al  comma  1  ("anche  dopo  l'esercizio  dell'azione
 penale")  -  consentire al pubblico ministero di chiedere l'incidente
 probatorio con riferimento  anche  a  tutti  gli  imputati  di  reato
 connesso,  il  cui  esame sia stato ammesso in dibattimento, ma delle
 cui dichiarazioni predibattimentali o dibattimentali, al  momento  di
 entrata in vigore della legge, non sia stata data lettura.
 Il  legislatore  ha,  cioe',  prefigurato  un  meccanismo  certamente
 singolarissimo, ma che risponde alle obiezioni piu' sopra illustrate.
 Anzitutto, data l'estrema dilatazione  dei  tempi  del  dibattimento,
 puo'  essere,  in singoli casi, conveniente per il pubblico ministero
 chiedere l'incidente probatorio per svolgere in contraddittorio esami
 di imputati in procedimento connesso che altrimenti sarebbero assunti
 in dibattimento molto  tempo  dopo.  Le  dichiarazioni  eventualmente
 assunte  nell'incidente probatorio dovrebbero poi essere inserite nel
 fascicolo per il dibattimento, consentendo quindi alle parti  in  via
 preliminare   ed   al  giudice  in  via  definitiva  di  valutare  se
 l'assunzione dibattimentale dell'esame sia divenuto superfluo  (artt.
 190,  comma 3, 495, ultimo comma c.p.p.) a seguito della celebrazione
 dell'incidente probatorio stesso.  Occorre percio' prendere atto  che
 la  disciplina  in  questione  sacrifica  certamente  il principio di
 immediatezza nella assunzione della prova, ma non lo nega in  toto  e
 che  il potere del giudice di fare nuove domande all'esito dell'esame
 e' salvaguardato dalla possibilita' conferitagli  dagli  articoli  da
 ultimo   citati  di  rigettare  l'istanza  delle  parti  di  rinuncia
 all'assunzione della  prova  in  dibattimento  a  seguito  dell'esame
 compiuto  in  incidente  probatorio  e  di  procedere comunque a tale
 assunzione, tutelando in tal modo l'esercizio dei  propri  poteri  ex
 art.  506 c.p.p.  Non solo: l'omessa previsione della possibilita' di
 adire l'incidente probatorio avrebbe dato luogo a  fondati  dubbi  di
 legittimita'   costituzionale   per   disparita'  di  trattamento  di
 situazioni analoghe e per lesione dell'art. 112 della Costituzione di
 cui questo tribunale si e' fatto carico nella citata ordinanza del 24
 ottobre scorso.  Tali dubbi, a seguito  della  nuova  interpretazione
 della  disciplina  transitoria,  non  possono  non dirsi venuti meno,
 atteso che la disciplina piu' sopra illustrata  parifica  pressocche'
 totalmente  la situazione transitoria dei dibattimenti di primo grado
 in corso in cui l'imputato in procedimento connesso  non  sia  ancora
 stato   citato   o  comunque  non  sia  ancora  stato  sentito  circa
 l'esercizio o no, da parte sua, della facolta' di non rispondere  con
 la  situazione  che  la  legge  stessa  prefigura  come ordinaria nei
 procedimenti in cui sono in corso le indagini, nell'ambito dei  quali
 l'incidente  probatorio e' fisiologicamente richiedibile dal pubblico
 ministero con l'ampiezza oggettiva prevista  dall'art.  4,  comma  1,
 legge n. 267 del 1997.  In conclusione si deve ritenere che anche con
 riferimento  ai  dibattimenti in corso, nelle situazioni predette, il
 legislatore abbia consentito  al  pubblico  ministero  di  richiedere
 l'incidente  probatorio.    4.  -  Non  manifesta  infondatezza della
 questione di  legittimita'  dell'art.  513,  comma  2,  c.p.p.,  come
 sostituito  dall'art.  1,   legge n. 267 del 1997, nella parte in cui
 subordina soltanto all'accordo delle parti  la  lettura  dei  verbali
 contenenti  le dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone
 indicate nell'art.  210  c.p.p.    qualora  si  siano  avvalse  della
 facolta'  di  non  rispondere.   I fondati sospetti di illegittimita'
 nutriti dal Collegio circa la disciplina introdotta  dalla  legge  n.
 267   del   1997,   tuttavia,   non   si   limitavano   affatto  alle
 discriminazioni  rinvenute  a  seguito  della  (non   infondatamente)
 ritenuta  esclusione  della possibilita' per il pubblico ministero di
 adire l'incidente probatorio in corso di istruttoria  dibattimentale,
 ma  andavano  ad investire il profilo della razionalita', conformita'
 al  principio  dell'obbligatorieta'  dell'azione   penale   e   della
 indefettibilita'  della  giurisdizione  del  meccanismo  che, in base
 all'art. 513,  comma  2,  c.p.p.  -  applicabile  tanto  seguendo  la
 precedente  interpretazione che seguendo quella piu' sopra illustrata
 -, conferisce al  nutum  manifestato  dall'imputato  in  procedimento
 connesso  ed  alle  parti il potere di escludere una prova dal novero
 delle conoscenze utilizzabili dal  giudice  per  rendere  una  giusta
 decisione.      Cio'  e'  dimostrato  dalla  circostanza  che,  anche
 ammettendo  che  il  pubblico  ministero  possa   adire   l'incidente
 probatorio,  sebbene  la  prospettiva  complessiva muti in misura non
 trascurabile,  il  risultato  di  non  manifesta  infondatezza  delle
 questioni  di legittimita gia proposte e concernenti le stesse norme,
 non cambia affatto.  E' infatti dimostrabile che la  possibilita'  di
 adire  l'incidente probatorio concessa al pubblico ministero mediante
 l'ampliamento dei suoi presupposti obiettivi (art. 4, comma 1,  legge
 n. 267 del 1997) e temporali (art. 6, comma 1, legge n. 267 del 1997)
 non  e'  strumento utile a rendere effettiva la possibilita' - per il
 pubblico ministero gravato dell'onere della prova ex art.  27,  comma
 2,  della  Costituzione  -  di  assumere la prova in contraddittorio,
 cosicche' gli rimane comunque preclusa la possibilita'  di  prevenire
 effettivamente  la  prevedibile  irripetibilita'  della  prova  e  di
 evitare   l'inutilizzabilita'   dibattimentale   dell'atto   divenuto
 irripetibile.     4.1.  -  Inidoneita'  dell'incidente  probatorio  a
 garantire la effettiva possibilita', per il  pubblico  ministero,  di
 assicurare  la formazione nel contraddittorio delle parti della prova
 prevedibilmente irripetibile, quando si tratti di dichiarazioni  rese
 da  imputato  in  procedimento  connesso.    Al fine di giungere alla
 dimostrazione di quanto da ultimo affermato ed anche di disegnare  un
 corretto percorso argomentativo, occorre preliminarmente porre alcune
 premesse.    Il  sistema della prova nel processo penale.  Il sistema
 della prova nel processo penale del 1988 - come indiscutibilmente  si
 desume  dalle  relazioni  accompagnatorie,  dalla  dottrina e, non da
 ultimo, dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 254 e n. 255
 del 1992, n. 111 del 1993) - e' configurato come segue.
   Principio cardine e' quello dell'oralita', cioe'  assunzione  della
 prova  nel  contraddittorio  delle  parti  e  davanti  al giudice del
 dibattimento, cioe' un giudice nel contempo terzo (v. il principio di
 separazione delle fasi), in  immediato  contatto  con  la  prova  nel
 momento  stesso  della  sua formazione (principio di immediatezza) ed
 investito della competenza a decidere nel merito.   Pervero la  legge
 n.  267  del  1997  sembra  avere  fatto una scelta in controtendenza
 rispetto  allo  schema  del  1988,  consentendo  una   indiscriminata
 anticipazione nell'assunzione di certe prove - in particolare proprio
 le  dichiarazioni  di imputati ed imputati in procedimento connesso -
 con incidente probatorio, con correlativa depressione  del  principio
 di  immediato  contatto  del giudice che decide con la prova all'atto
 della sua formazione e con conseguente decentramento,  rispetto  alla
 istruttoria  dibattimentale,  del  momento  e del luogo di assunzione
 della prova.  Tale mutamento, che agisce solo a livello di  eccezione
 al  principio  di immediatezza - che e' solo una delle componenti del
 principio di oralita'  -  non  scalfisce  l'altra  -  contraddittorio
 genetico  della  prova  - ed anzi e' volta, se non nei fatti (come si
 vedra') almeno nelle intenzioni del legislatore, ad una sua  maggiore
 tutela.    Rimane  dunque  intatto,  anche  a seguito dell'entrata in
 vigore della legge n. 267 del 1997, tutto il sistema dei rapporti tra
 assunzione della prova in contraddittorio e  procedimento  probatorio
 sussidiario  ed  alternativo  di  formazione  della  prova  quando il
 contraddittorio  non  possa  svolgersi  per  svariate   cause   (c.d.
 "principio  di  non dispersione delle prove").  Tale sistema si fonda
 appunto sul presupposto che esistono atti la cui nuova assunzione nel
 contraddittorio delle parti e' impossibile (atti  irripetibili).    A
 fronte  di  tale  impossibilita',  tuttavia,  il  sistema accusatorio
 positivo - proprio perche' accusatorio -  ha  inteso  distinguere  le
 categorie astratte degli atti ontologicamente irripetibili dagli atti
 la   cui   irripetibilita'   sia  sopravvenuta,  lasciando  poi  alla
 giurisprudenza il compito di sussumere  i  singoli  atti  all'interno
 dell'una  o  dell'altra  categoria.    Quella distinzione categoriale
 trova fondamento in questo, che solo con riferimento alla seconda, ma
 non con riferimento alla prima sono immaginabili strumenti  idonei  a
 consentire  la  assunzione  della  prova  salvaguardando  comunque il
 contraddittorio genetico della prova, strumenti introdotti al preciso
 scopo di ampliarne al massimo la pratica.   Lo strumento  ideato  dal
 legislatore  per  consentire  di assicurare la formazione della prova
 nel contraddittorio delle parti con riferimento agli atti rispetto ai
 quali   sia   prevedibile   il   sopravvenire   di   una   causa   di
 irripetibilita',  consta,  a  ben vedere, di due elemeti: il primo e'
 l'incidente probatorio, con cui  si  consente  alle  parti  -  ed  in
 particolare  al  pubblico ministero - l'assunzione della prova con le
 forme dibattimentali; il secondo  e'  costituito  dalla  sanzione  di
 inutilizzabilita'  dell'atto  prevedibilmente  irripetibile e che sia
 divenuto tale. La previsione di tale sanzione e'  il  mezzo  con  cui
 l'ordinamento  spinge  il pubblico ministero - parte pubblica gravata
 dell'onere della prova ex art. 27, comma 2, della Costituzione - ad a
 porre attenzione al  problema  della  previsione  di  irripetibilita'
 sopravvenuta  di atti ontologicamente ripetibili ed a porre rimedio a
 tale situazione ogni qual volta ne rinvenga la sussistenza.    E'  il
 caso  di  notare  che  tale  disciplina,  nell'ambito  di  un sistema
 accusatorio, trova il suo senso proprio nella circostanza che,  sullo
 stesso tema di prova, l'elemento assunto in contraddittorio puo', per
 la  presenza  attiva della difesa nel momento assuntivo, formarsi con
 connotati in tutto od in parte diversi od anche opposti,  rispetto  a
 quelli   che   aveva   a   seguito  dell'assunzione  di  parte.  Tale
 possibilita' e' tutelata dal sistema proprio perche'  in  cio'  viene
 riconosciuto  l'esercizio  effettivo del diritto di difesa produttivo
 di un surplus qualitativo in  termini  di  incremento  del  tasso  di
 genuinita'  della  prova: nella ideologia della concezione dialettica
 della prova e' la sua falsificabilita' che ne garantisce  la  maggior
 fedelta'  possibile  in  termini  di riproduzione della realta'.  Una
 prima  conclusione,  infine,  e'  quella  che  il   sistema   risulta
 conformato secondo quattro categorie:
   atti  assunti  dal pubblico ministero (o dalla polizia giudiziaria)
 ed astrattamente ripetibili, che devono essere ripetuti e sono di per
 se stessi limitatamente utilizzabili in dibattimento (artt. 500 e 503
 cp.p.);
   atti assunti dal pubblico ministero (o dalla  polizia  giudiziaria)
 ed  astrattamente ripetibili di cui pero' sia in concreto prevedibile
 l'irripetibilita',   come    tali,    se    divenuti    irripetibili,
 inutilizzabili  in  dibattimento, ma rispetto ai quali e' prevista la
 possibilita' per il pubblico ministero di assicurare (e  assicurarsi)
 la   formazione  di  una  prova  in  contraddittorio  utilizzando  lo
 strumento dell'incidente probatorio;
   atti  atti  assunti  dal  pubblico  ministero  (o   dalla   polizia
 giudiziaria)  ed  astrattamente  ripetibili  di  cui  sia in concreto
 imprevedibilmente   sopravvenuta   l'irripetibilita',    come    tali
 utilizzabili in dibattimento;
   atti  compiuti dal pubblico ministero (o dalla polizia giudiziaria)
 ontologicamente (od originariamente) irripetibili, di cui e' prevista
 l'utilizzabilita' in dibattimento (art. 431, lett.  b),  c)  c.p.p.).
 Occorre  altresi'  ulteriormente  precisare,  rispetto  a quanto gia'
 detto,  che  deve  essere  ritenuto  irripetibile   l'atto   la   cui
 assunzione,  per  caratteristiche  intrinseche  (es.:  perquisizione,
 sequestro, ispezione, pedinamento) o per cause sopravvenute di ordine
 naturale o giuridico (es.: morte, amnesia totale dovuta  a  malattia,
 esercizio  della  facolta'  di  non rispondere da parte di chi ne sia
 titolare), non e' rinnovabile nella  diversa  forma  che  prevede  la
 tutela  del  contraddittorio  genetico.    La  causa che impedisce di
 ripetere  l'atto  (rectius:  rinnovarlo  in  forma  garantita), rende
 impossibile anche il contraddittorio genetico.  Orbene, per un  verso
 e'   stato   previsto   un   procedimento   probatorio   (lettura  ed
 acquisizione)  che  consente  l'utilizzazione  di   atti   del   p.m.
 ontologicamente irripetibili o di atti ontologicamente ripetibili, ma
 di  cui  sia  in concreto sopravvenuta l'irripetibilita' senza che il
 sopravvenire della causa che l'ha  prodotta  fosse  prevedibile;  per
 altro  verso e' stata esclusa l'utilizzazione di atti ontologicamente
 ripetibili, rispetto ai quali fosse pero' prevedibile il sopravvenire
 di una causa  di  irripetibilita',  poi  effettivamente  intervenuta,
 salva,  in  questo  caso,  la  possibilita'  di  assicurare  la prova
 mediante incidente probatorio.
    In sostanza, la prevedibilita' od imprevedibilita' della causa  il
 cui sopravvenire rende irripetibile l'atto compiuto in indagini senza
 contraddittorio  e'  il  fatto  giuridico  che - insieme a quello che
 effettivamente  determina  l'irripetibilita'  -   produce   l'effetto
 giuridico, rispettivamente, di inutilizzabilita' o di utilizzabilita'
 dell'atto; cioe' che lo qualifica o no come prova.
   Orbene,  un  sistema  siffatto  si  fonda su due cardini: anzitutto
 quando  il  contraddittorio  non  sia  possibile,   i   principi   di
 obbligatorieta'   dell'azione  penale  e  di  indefettibilita'  della
 giurisdizione (che, in questo,  il  legislatore  -  e  sarebbe  stato
 impossibile  il  contrario  -  mostra  di  avere  recepito  in pieno)
 impongono l'utilizzo degli atti irripetibili compiuti da p.m. e p.g.;
 in secondo luogo e' possibile una eccezione a  siffatta  affermazione
 quando  il pubblico ministero, posto nella condizione di assumere una
 prova per lui rilevante con  il  rispetto  del  contraddittorio,  non
 abbia  adempiuto a tale onere.  Condizioni per assumere una prova nel
 contraddittorio delle parti sono che l'atto di assunzione della prova
 sia rinnovabile nelle diverse forme del contraddittorio e  che  fosse
 prevedibile   la   causa  dell'irripetibilita',  sinteticamente:  che
 l'irripetibilita'  dell'atto  fosse   evitabile   mediante   la   sua
 rinnovazione  in  diversa forma, rispettosa dei diritti della difesa.
 Tali due condizioni  devono  ovviamente  essere  compresenti  perche'
 l'atto    compiuto    dal    pubblico   ministero   sia   considerato
 inutilizzabile.  Invero, se manca la possibilita' di rinnovare l'atto
 con il rispetto del contraddittorio ovvero se la  causa  sopravvenuta
 di  irripetibilita' si doveva considerare imprevedibile, per un verso
 non e' possibile imputare al  pubblico  ministero  alcuna  negligenza
 nello  svolgimento  della  sua  pubblica  funzione, per altro verso i
 principi di uguaglianza, legalita',  obbligatorieta'  dell'azione  ed
 indefettibilita'  della  giurisdizione  penale  impongono  l'utilizzo
 dibattimentale degli atti compiuti dal pubblico ministero e  divenuti
 irripetibili.
  Prevedibilita'   od  imprevedibilita'  della  irripetibilita'  delle
 dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso? Prevedibilita'
 assunta come nuova prospettiva meramente  convenzionale  dalla  quale
 affrontare  il  problema  della  legittimita' dell'art. 513, comma 2,
 c.p.p.  Questo tribunale, con l'ordinanza in data 24 ottobre 1997  ed
 in  esercizio  di quell'onere di riempimento dello spazio ermeneutico
 consapevolmente lasciato libero dal legislatore, aveva  ritenuto  che
 l'assunzione dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso da
 parte  del  p.m. in fase di indagini dovesse essere ritenuta, gia' in
 astratto,  atto  di  cui  non  e'  possibile  prevedere   l'eventuale
 impossibilita' di ripetizione.  Cio' per vari motivi, gia' illustrati
 nella  richiamata  ordinanza  e  che  qui  si  devono  sinteticamente
 richiamare.   Il primo motivo  e'  che  la  scelta  dell'imputato  in
 procedimento  connesso in ordine all'esercizio o no della facolta' di
 non rispondere si basa su una valutazione personale, da parte di quel
 soggetto,  di   suoi   privati   interessi   processuali   ed   anche
 extraprocessuali  contrapposti  tra loro, cosicche' tale valutazione,
 come i suoi risultati in termini di esercizio  o  no  della  facolta'
 predetta,  sono,  per il pubblico ministero (come per ogni estraneo),
 del tutto imperscrutabili.   Il secondo motivo e'  che  non  si  puo'
 imporre ad una parte l'onere di prevedere i comportamenti dell'altra,
 poiche'  se  cio'  fosse  ammesso,  dati  i  vincoli di sistema sopra
 illustrati e considerato che - a differenza di quanto accade in altri
 sistemi  processuali  accusatori  in  cui  i  rapporti  tra  pubblico
 ministero  e  dichiarante sono regolati da un contratto i cui termini
 sono, in misura piu' o  meno  cogente,  previsti  dalla  legge  -  si
 avrebbe  come  singolare  risultato  di concedere effetto giuridico -
 addirittura in termini di utilizzabilita'  o  no  della  prova  -  ad
 eventuali  e  non  difficilmente ipotizzabili comportamenti scorretti
 dell'imputato nei confronti del pubblico ministero (o, eventualmente,
 a reazioni del soggetto in questione  a  comportamenti  del  pubblico
 ministero  da  lui  personalmente  ritenuti  scorretti).    I  motivi
 suindicati sono di tale cogenza da non poter essere  in  questa  sede
 disattesi.    E'  il  caso  di  considerare  che,  ritenuto l'atto di
 assunzione da parte del p.m.  delle  dichiarazioni  dell'imputato  in
 procedimento connesso atto imprevedibilmente irripetibile, il sistema
 ne  prevede  la  trasformazione  (o  riqualificazione) da elemento di
 prova in prova vera e propria quando la causa di  irripetibilita'  si
 verifichi   e  ne  impone  percio'  l'acquisizione  e  l'utilizzo  in
 dibattimento.  Avere invece subordinata tale acquisizione al consenso
 di tutte  le  parti  del  processo  significa  avere  introdotto  una
 possibilita' di esclusione della prova nella totale disponibilita' di
 ciascuna  delle parti.  Cio', in base alle considerazioni gia' svolte
 nell'ordinanza del 24 ottobre e che comunque saranno riproposte  piu'
 avanti,  non  puo' non creare un dubbio di conformita' di tale regola
 di esclusione e del meccanismo che la regola ai principi di cui  agli
 artt. 2, 3, 25, secondo comma, 102, 111 della Costituzione.  Tuttavia
 questo  tribunale intende farsi carico di valutare la questione anche
 secondo una diversa angolatura, cioe'  supponendo  la  prevedibilita'
 della  causa  che rende irripetibile l'atto di cui si e' detto, cioe'
 l'esercizio, da parte dell'imputato in procedimento  connesso,  della
 facolta'  di  non rispondere.   Ed invero, proprio la circostanza che
 sia con riferimento alla disciplina ordinaria che con  riferimento  a
 quella  transitoria il legislatore del 1997 abbia offerto al pubblico
 ministero l'alternativa dell'incidente probatorio potrebbe costituire
 un argomento nel senso che il  legislatore  medesimo  ha  considerato
 prevedibile in concreto
  l'eventuale   sopravvenuta   irripetibilita'  dell'atto  di  cui  si
 discute, cioe'  che,  nel  singolo  caso,  pubblico  ministero  possa
 prevedere  che  l'imputato  in procedimento connesso si avvarra' o no
 della facolta' di non rispondere.  Si tratta di argomento  per  nulla
 decisivo - poiche' nulla ha a che fare con la natura dell'atto di cui
 si discute, ne' con le sue effettive dinamiche -, tuttavia la diversa
 prospettiva   non   puo'   non  essere  considerata  per  completezza
 espositiva.    Da  ora in poi, quindi, il ragionamento sara' condotto
 sul presupposto - ammesso ma non concesso - che il pubblico ministero
 debba e possa prevedere nel singolo caso che dell'atto di  assunzione
 delle  dichiarazioni  dell'imputato  in  procedimento  connesso possa
 sopravvenire l'irripetibilita' a causa dell'esercizio, da  parte  del
 medesimo,   della   facolta'   di   non   rispondere.     Inidoneita'
 dell'incidente probatorio a fronteggiare l'esigenza di assicurare  la
 assunzione    in    contraddittorio   della   prova   prevedibilmente
 irripetibile  quando  si  tratti  di  dichiarazioni  di  imputato  in
 procedimento   connesso.      Posto  come  assioma  argomentativo  la
 prevedibilita' dell'irripetibilita'  dell'atto  di  assunzione  delle
 dichiarazioni  dell'imputato  di reato connesso da parte del pubblico
 ministero, si  pone,  al  fine  di  verificare  in  ogni  aspetto  la
 razionalita'  del  sistema  introdotto  dal  legislatore del 1997, il
 problema se l'ampliamento dei  presupposti  oggettivi  di  ammissione
 dell'incidente  probatorio  introdotto  con  il comma 1, dell'art. 4,
 legge  n.  267  del  1997  e  la   conseguente   introduzione   della
 possibilita'  da  parte  del p.m. di chiedere ed ottenere, sol che lo
 ritenga e senza altro presupposto impeditivo, l'incidente  probatorio
 avente  ad  oggetto  l'esame  della persona sottoposta ad indagini su
 fatti concernenti la responsabilita' di altri e l'esame delle persone
 indicate  dall'art.  210  c.p.p.  costituiscano  strumenti  idonei  a
 consentire  al  pubblico  ministero  di  rinnovare,  con le forme del
 contraddittorio genetico, l'assunzione delle dichiarazioni gia'  rese
 innanzi a lui, cioe' a consentirgli di assicurare la acquisizione con
 le    forme   del   contraddittorio   della   prova   prevedibilmente
 insuscettibile di assunzione in futuro.   Ai fini  della  risoluzione
 del  problema  deve  considerarsi  illuminante  proprio la disciplina
 transitoria introdotta dall'art. 6, commi 1 e 2 della  legge  n.  267
 del  1997:  il legislatore ha lasciato alla valutazione discrezionale
 del  pubblico  ministero  se  avvalersi   dell'incidente   probatorio
 addirittura  in  corso di dibattimento od invece se assumere la prova
 direttamente nel  dibattimento  stesso,  senza  chiedere  l'incidente
 probatorio,  ad  esempio  perche'  - come presumibilmente avvenuto in
 questo processo -, considerata la sospensione feriale dei termini, la
 data in cui presumibilmente si sarebbe tenuta l'udienza di assunzione
 delle  prove,  ed  i  tempi  tecnici  di  fissazione  e  celebrazione
 dell'incidente   probatorio,  il  pubblico  ministero  riteneva  piu'
 spedita questa seconda via.  Dunque anche il legislatore del 1997  ha
 ritenuto  l'assunzione  della  prova  in  incidente  probatorio od in
 dibattimento assolutamente equipollenti quanto a  forme  ed  effetti.
 Ne'  il  legislatore  avrebbe potuto ragionare diversamente attesa la
 ragion d'essere dell'istituto e l'espressa disposizione  degli  artt.
 401,  comma  5,  c.p.p.  - secondo cui: "Le prove sono assunte con le
 forme stabilite per il dibattimento" - e 431, lett. d), c.p.p..   Per
 inciso   si  puo'  aggiungere,  al  riguardo,  che  la  stessa  Corte
 costituzionale, proprio fondando il suo  argomentare  sulla  predetta
 equipollenza  e quindi sui dovuti effetti che essa doveva spiegare in
 ordine  alla  tutela  dell'effettivita'  del  diritto  di  difesa  ha
 interpretato  l'art.    401,  comma  5,  nel  senso che prevedesse il
 deposito  degli   atti   di   indagine   prima   della   celebrazione
 dell'incidente  probatorio (sent.  n. 74 del 1991).  Se cio' e' vero,
 risulta indiscutibile l'applicazione  non  solo  in  dibattimento  ma
 anche  nell'incidente  probatorio  dell'art. 210, comma 4, c.p.p. che
 impone  al  giudice,  come  atto  preliminare all'esame delle persone
 indicate in tale articolo, di avvertirle che hanno  facolta'  di  non
 rispondere.     In  tal  senso,  del  resto,  militano  inoppugnabili
 argomenti testuali:  basti por mente al fatto che, sia  celebrato  in
 dibattimento  od  in incidente probatorio, l'atto di assunzione delle
 dichiarazioni delle persone indicate  dall'art.  210  c.p.p.  avviene
 sempre  con  le  forme dell'esame (cfr. artt. 392, lett. c e d), art.
 210, commi 4 e 5, 499, 503 c.p.p.).   Tale  conclusione  e'  decisiva
 circa  la  soluzione  del  problema  posto all'inizio.   Ed invero e'
 incontrovertibile che, se le persone indicate dall'art.   210  c.p.p.
 possono   avvalersi  della  facolta'  di  non  rispondere  tanto  nel
 dibattimento come nell'incidente probatorio, lo strumento offerto dal
 legislatore al pubblico ministero per consentirgli di  assicurare  la
 assunzione  della  prova  nelle  forme  del contraddittorio genetico,
 proprio nel caso in cui sia  prevedibile  l'esercizio  da  parte  dei
 predetti della facolta' di non rispondere, risulta del tutto inidoneo
 a conseguire lo scopo.  Gli imputati in procedimento connesso possono
 ugualmente, in entrambe le sedi, infatti, avvalersi della facolta' di
 non  rispondere, cioe' di quella facolta' che ha l'effetto di rendere
 impossibile l'assunzione della prova con le forme del contraddittorio
 genetico.  Posta tale ovvia considerazione, l'alternativa reale  che,
 a  livello  ordinamentale  viene  posta  al  pubblico  ministero  che
 fondatamente preveda  che  l'imputato  in  procedimento  connesso  si
 avvarra'  della  facolta'  di  non  rispondere  e'  di  rischiare  di
 incassare subito il niet  o  di  incassarlo  dopo.    E'  sin  troppo
 evidente,  tuttavia,  che  l'anticipazione o posticipazione temporale
 della celebrazione dell'esame, non ha alcuna efficacia reale rispetto
 alla   circostanza   della    prevedibile    irripetibilita'    delle
 dichiarazioni  dell'imputato in procedimento connesso, cioe' non pone
 affatto il pubblico ministero in condizione di assumere oggi, con  il
 rispetto  delle  forme  del contraddittorio, una prova che domani non
 sarebbe  rinnovabile:  infatti  la  causa  della  non  rinnovabilita'
 dell'atto  -  cioe'  la  facolta' di non rispondere di cui le persone
 indicate dall'art. 210 c.p.p. godono sia in incidente probatorio come
 in dibattimento - opera, in astratto, ugualmente oggi come  domani  o
 dopodomani,  nel  corso  di  tutto  il  procedimento.    Si  potrebbe
 obiettare pero' che, se le cose stanno cosi' in astratto, possono non
 presentarsi allo stesso modo nella concreta  situazione  del  singolo
 processo.    Una obiezione del genere appare tuttavia scorretta sotto
 il profilo giuridico e, conseguentemente e  soprattutto,  foriera  di
 gravi  distorsioni  del  sistema e di altrettanto gravi sperequazioni
 nel  trattamento  degli  imputati,  degli  imputati  in  procedimento
 connesso  e  della  prova  in  situazioni  analoghe.   Sotto il primo
 aspetto e' infatti nota la costantissima giurisprudenza  della  Corte
 costituzionale  che  ritiene  che  i  profili  di  razionalita' nella
 costruzione e  nella  operativita'  degli  istituti  giuridici  ed  i
 paragoni  tra  trattamento delle diverse situazioni giuridiche vadano
 operati valutando istituti e fattispecie  nella  loro  prefigurazione
 giuridica,  indipendentemente dalla circostanza che, per mere ragioni
 di fatto,  essi,  in  singole  situazioni,  possano  sortire  effetti
 razionali o, all'opposto, effetti irrazionali.
   Ma  se  poi si passa a valutare quali possono essere, nel concreto,
 gli effetti di una disciplina come quella  prevista  dalla  legge  n.
 267  del  1997  e'  facile  prevederne i notevolissimi rischi che, in
 singoli casi, possono presentarsi.
   E'  infatti evidente che, se le parti - imputati compresi - possono
 con un mero atto di volonta' porre nel nulla  le  dichiarazioni  gia'
 rese  dagli  imputati  in procedimento connesso al pubblico ministero
 sol che essi si avvalgano della facolta' di non  rispondere,  aumenta
 esponenzialmente  il  valore  del  consenso  dei secondi a sottoporsi
 all'esame e della loro  disponibilita'  a  rendere  dichiarazioni  in
 dibattimento  o  in  incidente  probatorio (e' indifferente).   Si e'
 introdotto cioe' un potere di ricatto degli imputati in  procedimento
 connesso verso il pubblico ministero, verso la polizia giudiziaria e,
 in  generale, verso lo Stato al fine di ottenere, nel singolo caso, o
 trattamenti non dovuti oppure  un  esercizio  distorto  di  legittimi
 poteri  discrezionali.    D'altro canto si sono create le premesse di
 diritto perche', in singole situazioni di fatto, i  poteri  assegnati
 al  pubblico  ministero a fini del tutto diversi siano sviati al fine
 di  spingere  l'imputato  in  procedimento  connesso   a   sottoporsi
 all'esame  e,  magari, a reiterare con minuziosa precisione le accuse
 gia' rivolte a terzi in sede di indagini.   E' facile  individuare  i
 poteri che potrebbero essere - in singoli casi concreti - distorti al
 fine   di  ottenere  dichiarazioni  dibattimentali  (o  in  incidente
 probatorio) conformi  a  quelle  gia'  rese:  diniego  o  assenso  ad
 applicazione   di   pena;  individuazione  del  livello  di  pena  da
 applicare; assenso o diniego al  giudizio  abbreviato  (che  comporta
 comunque  effetti sui tempi di celebrazione del processo e quindi sui
 tempi di eventuale ottenimento di benefici penitenziari a fronte  del
 perdurare   dello  stato  di  custodia  cautelare,  incertezza  circa
 l'accoglimento della diminuente, consistente aumento delle spese  che
 l'imputato deve sopportare per la sua difesa in dibattimento); pareri
 favorevoli  o contrari alla concessione di misure cautelari personali
 coercitive meno  afflittive  della  custodia  cautelare  in  carcere;
 allungamento dei tempi di richiesta di archiviazione.  La legge cioe'
 - ponendo sullo sfondo la possibilita' che l'imputato possa annullare
 il  valore  probatorio delle dichiarazioni rese al pubblico ministero
 dall'imputato in procedimento connesso -  pone  le  premesse  per  un
 braccio di ferro tra il dichiarante ed il pubblico ministero medesimo
 che,  non  essendo  disciplinato  nelle  sue cadenze, puo', di fatto,
 essere gestito in modo  distorto.    Palesi  discriminazioni  poi  si
 porrebbero   tra  imputati  in  precedimento  connesso  sottoposti  a
 programma di protezione - per i quali il  rapporto  con  il  pubblico
 ministero  e con lo Stato e' formalizzato secondo norme di legge - ed
 imputati in procedimento  connesso  non  sottoposti  a  programma  di
 protezione,   con   possibili   discriminazioni  di  fatto  influenti
 addirittura sul regime di utilizzabilita' della prova.  E' poi appena
 il caso di accennare, tanto e' evidente, al  rapporto  che  la  legge
 instaura  tra  imputato ed imputato in procedimento connesso, laddove
 pone l'esercizio della  facolta'  di  non  rispondere  da  parte  del
 secondo  come presupposto del potere del primo di annullare il valore
 probatorio  degli   elementi   raccolti   dal   pubblico   ministero.
 L'incentivo  a  che  l'imputato  induca  con tutti i mezzi - comprese
 violenze, minacce, offerte o promesse di denaro od altra  utilita'  -
 l'imputato  in  procedimento connesso ad avvalersi della facolta' che
 la legge gli riconosce e' incontrovertibile,  visto  che  a  cio'  e'
 immediatamente  legato  il  potere  di  evitare  in tutto od in parte
 l'accertamento del fatto a suo carico.  Il sistema cioe' puo'  cioe',
 in  singoli  casi,  sortire  effetti, se non addirittura criminogeni,
 comunque certamente contrari allo scopo  che  si  propone,  cioe'  di
 tutelare  il  contraddittorio  genetico.   In conclusione, quindi, si
 puo'  affermare  che  il  problema  dell'efficacia  dello   strumento
 dell'incidente probatorio in termini di idoneita' a consentire che il
 pubblico  ministero possa assicurare l'assunzione delle dichiarazioni
 dell'imputato   in   procedimento   connesso   con   le   forme   del
 contraddittorio, quando preveda che quegli si avvarra' della facolta'
 di   non   rispondere   deve  essere  affrontato,  sotto  il  profilo
 giuridico-costituzionale, in astratto.  Se valutato in  astratto,  il
 problema e' di facile soluzione e la risposta non puo' che essere nel
 senso  della totale inidoneita', posto che la causa di cui si paventa
 l'operativita' e che puo' rendere impossibile il contraddittorio - la
 facolta' di non rispondere - e' ugualmente operante nel  dibattimento
 come   nell'incidente   probatorio,  indipendentemente  da  qualsiasi
 anticipazione o posticipazione temporale della celebrazione dell'atto
 e dalla fase processuale in cui e' assunto.  Se poi, erroneamente, si
 volesse valutare  l'operativita'  concreta  del  sistema  ideato  dal
 legislatore  del  1997,  non  vi sarebbe che da temere le prevedibili
 distorsioni che esso puo' provocare in singoli casi sulla gestione di
 diversi istituti processuali  anche  involgenti  la  compressione  di
 diritti  primari  del  cittadino,  quali  la liberta' personale.   Le
 superiori considerazioni rendono evidente che - attesa  l'equivalenza
 delle due possibilita' offerte dall'ordinamento al pubblico ministero
 (assunzione   delle   dichiarazioni   in  dibattimento  od  incidente
 probatorio) -, l'alternativa che gli si pone di fronte e', sul  piano
 giuridico,  meramente  apparente,  del tutto illusoria.   In realta',
 come si e' appena detto, la  celebrazione  dell'incidente  probatorio
 non assicura affatto l'assunzione in contraddittorio di dichiarazioni
 che,  se l'assunzione fosse posticipata al dibattimento, diverrebbero
 irripetibili, proprio perche' tanto nell'incidente probatorio  quanto
 in  dibattimento opera nello stesso modo la causa di irripetibilita',
 cioe' la facolta' di non rispondere concessa  alle  persone  indicate
 dall'art.  210  c.p.p.    In  sostanza, il rischio di irripetibilita'
 delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso dovuta  a
 prevedibile  esercizio  della  facolta'  di  non  rispondere  non  e'
 fronteggiabile attraverso la concessione al pubblico ministero  della
 possibilita'  di  adire l'incidente probatorio, poiche' l'esperimento
 di   tale   via    non    prevede    l'eliminazione    della    causa
 dell'irripetibilita'   e,   percio',  non  assicura  la  rinnovazione
 dell'atto nelle forme del contraddittorio genetico.   E' evidente  la
 differenza   rispetto   ai   casi   in   cui,  essendo  la  causa  di
 irripetibilita' di ordine naturale,  l'anticipazione  del  compimento
 dell'atto  garantito  di assunzione della prova incide, eliminandola,
 sulla causa di prevedibile irripetibilita'.  L'esempio  e'  semplice:
 il  decorso  della  malattia  fa  prevedere  la  morte del testimone,
 l'anticipazione dell'assunzione delle sue dichiarazioni  nella  forma
 dibattimentale, annulla il rischio del mancato rinnovamento dell'atto
 in dibattimento.
   Tale  conclusione  induce a tuttavia meditare sulla completezza del
 sistema di formazione della prova nel processo  vigente  e,  piu'  in
 particolare,  a scorgervi una lacuna categoriale, nel senso che nulla
 e' previsto circa l'utilizzabilita' di un insieme di atti  aventi  le
 medesime  caratteristiche.    Tali  atti  sono  quelli  compiuti  dal
 pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria di cui sia prevedibile
 l'irripetibilita'  -  e sinanco prevista, nel caso concreto -, ma che
 siano  anche,  nel  contempo,  non  rinnovabili  con  le  forme   del
 contraddittorio,  per cause di fatto o di diritto.  Un esempio di non
 rinnovabilita' dell'atto per ragioni di fatto e' dato dal caso -  non
 di  scuola  ne'  infrequente  - di persona offesa che, morente, renda
 dichiarazioni alla polizia giudiziaria od al pubblico ministero senza
 che vi sia il  tempo  materiale  per  rinnovare  l'atto  nelle  forme
 dell'incidente  probatorio,  poiche'  la  morte  interviene prima dei
 tempi tecnici minimi per la  celebrazione  dell'incidente  probatorio
 stesso.    Altro  esempio  e' consacrato in un articolo del codice di
 procedura penale (art. 512-bis c.p.p.), che prevede  la  possibilita'
 di  dare  lettura,  a  richiesta di parte (ma anche su iniziativa del
 giudice ex art. 507 c.p.p.), delle dichiarazioni rese al p.m. od alla
 p.g.   dal cittadino straniero  residente  all'estero  citato  e  non
 comparso  od  addirittura  nemmeno  citato.    Esempi, invece, di non
 rinnovabilita' dell'atto per ragioni di diritto sono dati  sia  dalle
 dichiarazioni  del  teste  prossimo  congiunto che, in dibattimento a
 differenza che in sede di indagini, si sia avvalso della facolta'  di
 non  testimoniare, sia, appunto, dalle dichiarazioni rese da imputato
 in  procedimento  connesso  che,  in  dibattimento  od  in  incidente
 probatorio  -  e'  indifferente,  per  quanto  detto  prima -, si sia
 avvalso della facolta' di non rispondere.  Il problema che  si  pone,
 quindi,  e'  quale  disciplina  applicare  con  riferimento agli atti
 prevedibilmente irripetibili, ma che lo siano divenuti senza  che  il
 pubblico  ministero  avesse la possibilita' - di fatto o di diritto -
 di assicurare la prova mediante rinnovazione dell' atto  nelle  forme
 del   contraddittorio  genetico.     Non  imputabilita'  al  pubblico
 ministero della mancata assicurazione della  assunzione  della  prova
 nel  contraddittorio  delle parti quando l'atto non sia - per ragioni
 di fatto o di diritto - rinnovabile nelle forme  del  contraddittorio
 genetico  e,  quindi,  non  imputabilita'  del  fatto  di  non  avere
 prevenuto l'irripetibilita' prevedibile.  Per risolvere  il  problema
 da  ultimo  descritto  nel  paragrafo  che precede e' sufficiente por
 mente al principio, gia' illustrato,  che  governa  l'utilizzabilita'
 degli  atti  prevedibilmente  irripetibili  ed  applicarlo al caso di
 specie.  Il principio e' che, se e' prevedibile  il  sopravvenire  di
 una  causa  che  rende  irripetibile l'atto di assunzione della prova
 compiuto
  dal p.m., l'atto stesso e' inutilizzabile, salva la possibilita'  di
 rinnovarlo  con  salvaguardia  del  contraddittorio.    La  ratio del
 principio e' che, se il pubblico ministero - organo pubblico  gravato
 dell'onere  della prova - non ha previsto la causa di irripetibilita'
 prevedibile o, avendola prevista, non ha assicurato  la  prova  nelle
 forme  che  consentono di garantire il contraddittorio, allora non ha
 diritto a che il giudice utilizzi l'elemento di prova da lui  formato
 senza  contraddittorio.  Il presupposto di tale ratio e' ovviamente -
 secondo i principi generali in tema di imputabilita' del fatto -  che
 il  soggetto  -  nel  caso  il  pubblico  ministero  -  potesse agire
 diversamente cioe' potesse, perche' consentitogli dai  tempi  tecnici
 di  richiesta  e  celebrazione  dell'incidente  probatorio  e perche'
 consentitogli dalla configurazione giuridica dell'istituto, agire  in
 modo tale da assicurare la formazione della prova nel contraddittorio
 con la difesa.  Ovvio dedurre che, ogni qual volta dell'atto divenuto
 irripetibile  non  fosse possibile la rinnovazione in contraddittorio
 per motivi di fatto o per motivi di diritto estranei all'ufficio  del
 pubblico  ministero, l'omessa rinnovazione dell'atto con salvaguardia
 del contraddittorio, non sarebbe  imputabile  al  pubblico  ministero
 medesimo.    Qualora  poi  tale  omissione  non  fosse  imputabile al
 pubblico ministero, si dovrebbe ritenere che l'atto compiuto in  sede
 di  indagini,  per  quanto prevedibilmente irripetibile, sia divenuto
 inevitabilmente irripetibile, poiche', in linea di fatto od in  linea
 di  diritto,  non  e' stato possibile rimuovere la causa che, facendo
 divenire irripetibile l'atto, ha nel contempo impedito di  rinnovarlo
 in  contraddittorio.    La  disciplina dell'utilizzabilita' dell'atto
 prevedibilmente irripetibile, ma divenutolo inevitabilmente, deve  di
 necessita'   assimilarsi   a  quella  che  il  codice  contempla  con
 riferimento agli atti divenuti imprevedibilmente  irripetibili:  deve
 cioe' esserne ammessa la diretta utilizzabilita' mediante inserimento
 nel  fascicolo  per  il  dibattimento, sia perche', come per gli atti
 imprevedibilmente irripetibili, l'omessa rinnovazione  dell'atto  non
 e'  imputabile  al pubblico ministero, sia perche' esistono, rispetto
 ad entrambe le categorie di atti, le identiche necessita'  di  tutela
 dei   principi  di  uguaglianza,  legalita',  obbligatorio  esercizio
 dell'azione penale ed indefettibilita' della giurisdizione penale che
 vigono per i primi, a fronte della concreta impossibilita' di  tutela
 il  diritto  di difesa nella forma del contraddittorio genetico.  Ma,
 tornando al caso che ne occupa, e' indubbio che il  p.m.  non  poteva
 evitare, rinnovando in incidente probatorio od in dibattimento l'atto
 di   assunzione   della   prova  -  nella  specie,  le  dichiarazioni
 direttamente acquisite da Scisciola Salvatore e Di  Gaetano  Antonino
 -,  come  si  sono  avvalsi  della  facolta'  di  non  rispondere  in
 dibattimento,  ben  avrebbero  potuto  esercitare  tale  facolta'  in
 incidente  probatorio e non v'e' motivo per ritenere che - essendo le
 condizioni giuridiche e di fatto identiche  -  non  se  ne  sarebbero
 effettivamente  avvalsi  provocando  i medesimi effetti prodotti oggi
 dall'astensione dibattimentale.  Dunque, anche ammettendo che il p.m.
 possa  prevedere  che  l'atto  di  assunzione   delle   dichiarazioni
 dell'imputato  in  procedimento  connesso  diverra'  irripetibile per
 esercizio della  facolta'  di  non  rispondere,  comunque  si  dovra'
 concludere  per  l'utilizzabilita' dell'atto stesso una volta che, in
 dibattimento o in incidente probatorio il medesimo si sia avvalso  di
 tale   facolta'   con  cio'  provocando  l'irripetibilita'  dell'atto
 precedente,  poiche'  l'esame  del  soggetto  predetto  in  incidente
 probatorio o in dibattimento si svolge con la medesima configurazione
 giuridica,  potendo egli avvalersi in entrambe le sedi della facolta'
 di non rispondere; perche' al p.m. non e' stato fornito uno strumento
 alternativo  idoneo  ad  evitare  (giuridicamente)  l'irripetibilita'
 medesima  assicurando  la  prova  mediante  rinnovazione dell'atto in
 contraddittorio con la difesa; perche', quindi,  l'atto  e'  divenuto
 irripetibile  senza  che  il  p.m.  potesse  fare nulla per evitarlo,
 cosicche' tale circostanza non gli e' imputabile.
   Infine, e' appena  il  caso  di  notare,  a  questo  punto,  che  -
 descritta  come  sopra  la  situazione  ordinamentale - menzionare la
 presunta efficacia euristica di non  meglio  determinate  "strategie"
 delle  parti  o  del pubblico ministero rispetto all'assunzione della
 prova, ha effetto puramente mistificatorio.
   Conclusioni.
   Si   puo',   infine,  affermare:  la  equivalenza  degli  strumenti
 giuridici offerti al p.m. per assumere la  prova  in  contraddittorio
 (esame  in  dibattimento  ed  in  incidente probatorio), la loro pari
 inidoneita' a porre nel nulla la causa di  irripetibilita'  dell'atto
 gia'  assunto (dichiarazioni delle persone di cui all'art. 210 c.p.p.
 acquisite  al   pubblico   ministero   senza   contraddittorio);   la
 conseguente   inevitabilita'   dell'irripetibilita'  dell'atto  e  la
 ulteriormente  conseguente  inimputabilita'   al   p.m.   dell'omessa
 rinnovazione  dell'atto  nelle forme del contraddittorio genetico; la
 finale e dovuta affermazione di utilizzabilita' degli  atti  compiuti
 dal  p.m.  in  ordine ai quali sia prevedibile il sopravvenire di una
 causa  di  irripetibilita'  ma   inevitabile   l'operativita'   della
 medesima.    Tutte  queste  considerazioni  inducono  a  ritenere che
 l'ampliamento dei casi di incidente probatorio e  delle  possibilita'
 date al p.m.  di richiedere ed ottenere la sua celebrazione non possa
 spiegare  effetto  di  sorta  rispetto al problema della legittimita'
 costituzionale del meccanismo di ammissione della prova (tali sono, a
 questo punto e' quasi inutile ripeterlo,  le  dichiarazioni  rese  al
 p.m.   delle   persone   indicate   all'art.   210   c.p.p.  divenute
 inevitabilmente irripetibili a seguito dell'esercizio della  facolta'
 di  non  rispondere)  previsto  dall'art.  513  comma  2  c.p.p., che
 subordina  al  consenso  di  ciascuna  delle  parti  la   lettura   e
 l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento della prova medesima.
 4.2.   -   Giurisprudenza  della  Corte  costituzionale  in  tema  di
 valutazione della prova e di regole di esclusione della  prova.    Si
 deve  notare  che la disciplina prevista dal combinato disposto degli
 artt. 513 comma 2 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge  n.  267
 del  1997,  e 6, comma 1, della medesima legge vanno ad inserirsi nel
 centro del processo disegnato dal codice vigente, laddove regolano da
 un lato i rapporti tra fase delle  indagini  e  fase  dibattimentale,
 dall'altro i poteri delle parti nella formazione dibattimentale della
 prova  e,  dall'altro  ancora  impongono  limiti  alla formazione del
 razionale e motivato convincimento giudiziale.  Non v'e'  dubbio  che
 le  norme di cui si discorre siano ispirate ad un depotenziamento del
 valore probatorio delle acquisizioni avvenute in fase di indagini  ed
 in  assenza di contraddittorio mediante il conferimento alle parti di
 un potere discrezionale il cui esercizio puo' interdire l'ingresso di
 quegli elementi nel fascicolo per il dibattimento.  Preso atto che la
 scelta del legislatore si e' mossa verso  l'accentuazione  di  alcuni
 aspetti particolari del processo accusatorio come processo di parti -
 in particolare la positivizzazione, per la prima volta, del principio
 dispositivo  in  materia  di  prova -, occorre verificare se, in base
 alla    giurisprudenza    formatasi    nelle    materie     coinvolte
 dall'innovazione   normativa,   non   si   siano  ecceduti  i  limiti
 costituzionali che la Corte stessa ha individuato  alla  introduzione
 nel  nostro ordinamento di un processo regolato secondo gli schemi di
 un puro processo penale di parti.   Gia'  con  riferimento  al  piano
 metodologico,   infatti,   la   Corte   ha  affermato  che:  "...  la
 considerazione   dell'ordinamento   processual-penale   italiano   va
 condotta,  a  prescindere  da  astratte modellistiche, sulla base del
 tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non
 puo' che derivare  da  un'attenta  lettura  dei  principi  e  criteri
 direttivi  enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali
 di cui questa ... richiede l'attuazione. Non va cioe' dimenticato che
 ''il   sistema   processuale  delineato  nella  legge  delega  e  poi
 concretamente attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato  che
 tende  bensi'  (art.  2  comma 1) ad attuare 'i caratteri del sistema
 accusatorio', 'ma secondo i principi ed i criteri  specificati  nelle
 direttive  che  seguono'  (sent.  n.  88 del 1991); e che, poiche' la
 stessa norma detta ancor prima l'obbligo di 'attuare i principi della
 Costituzione',    un'adeguata     considerazione     dell'ordinamento
 effettivamente   vigente   non   puo'  prescindere  dagli  interventi
 correttivi che questa Corte  si  e'  trovata  a  dover  apportare''".
 Seguendo  questa prospettiva, al fine di valutare la sussistenza o no
 di  un  dubbio  circa  la  conformita'  a  costituzione  delle  norme
 suindicate, occorrera' prendere le mosse da tutte quelle affermazioni
 e  decisioni  con  cui  in  questi  anni  la  Corte  ha esplicitato i
 caratteri costituzionali della azione e della  giurisdizione  penale,
 la  funzione  assegnata al processo penale, il ruolo che gioca al suo
 interno il valore costituito dalla ricerca della  verita'  cosiddetta
 "reale"   o   "materiale"   in  contrapposto  a  quella  "formale"  o
 "processuale".  Quanto al primo aspetto la Corte - pronunciandosi  in
 tema  di  reiterazione  di  dichiarazioni  di ricusazione fondate sui
 medesimi motivi -, ha di recente avuto modo di ribadire (sent. n.  11
 del  1997)  l'esistenza  del "... principio di indefettibilita' della
 giurisdizione, ricollegabile a vari principi  costituzionali,  fra  i
 quali l'art. 101 della Costituzione invocato dal giudice a quo (oltre
 alla  sentenza  n.  353  del  1996 e l'ordinanza n. 5 del 1997, v. le
 sentenze nn. 460 del 1995, 114  del  1994,  289  del  1992,  178  del
 1991)".  E  la  Corte, confrontando il principio suddetto a quello di
 uguaglianza  inteso  come  "canone   di   coerenza   dell'ordinamento
 giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...",
 ha  immediatamente  aggiunto:  "E  qui  va  riconosciuta,  certo,  la
 discrezionalita'   del   legislatore   per   quanto   attiene    alla
 individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del
 principio  di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto,
 la nozione stessa di processo. Si che sono da  censurare,  pure  alla
 luce  del  principio  di  razionalita'  normativa,  istituti o regole
 quando  si  prestino  ad  un  uso  distorto,  recando  cosi   lesione
 dell'efficiente  svolgimento della funzione giurisdizionale".  Quanto
 alla funzione ed al ruolo del pubblico  ministero,  la  Corte  si  e'
 espressa  in  modo  assai  chiaro nella sentenza n. 88 del 1991:  "Va
 innanzi tutto ricordato, al proposito, quanto questa  Corte  ebbe  ad
 affermare    nella    sentenza    n.   84   del   1979,   cioe'   che
 ''l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale  ad  opera  del
 pubblico  ministero  ...  e'  stata costituzionalmente affermata come
 elemento che concorre a garantire,  da  un  lato  l'indipendenza  del
 pubblico   ministero   nell'esercizio   della   propria  funzione  e,
 dall'altro,  l'uguaglianza  dei  cittadini  di  fronte   alla   legge
 penale'';  sicche'  l'azione  e'  attribuita  a  tale  organo ''senza
 consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale
 doveroso ufficio''.
   Piu' compiutamente: il principio di legalita' (art.  25  comma  2),
 che  rende  doverosa  la  repressione delle condotte violatrici della
 legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita'
 del procedere; e questa, in un sistema come il  nostro,  fondato  sul
 principio  di  uguaglianza  dei  cittadini  di  fronte alla legge (in
 particolare, alla legge penale), non puo'  essere  salvaguardata  che
 attraverso  l'obbligatorieta'  dell'azione  penale.    Realizzare  la
 legalita' nell'eguaglianza non e', pero', concretamente possibile  se
 l'organo  cui  l'azione e' demandata dipende da altri poteri: sicche'
 di tali principi  e'  imprescindibile  requisito  l'indipendenza  del
 publico  ministero.  Questi e' infatti, al pari del giudice, soggetto
 soltanto alla legge (art. 101 comma secondo  Cost.)  e  si  qualifica
 come  "un  magistrato  appartenente  all'ordine giudiziario collocato
 come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni
 altro potere", che "non fa valere  interessi  particolari  ma  agisce
 esclusivamente  a tutela dell'interesse generale all'osservanza della
 legge" (sentt. nn. 190 del 1970 e 96 del  1975).    Il  principio  di
 obbligatorieta'  e',  dunque, punto di convergenza di un complesso di
 principi basilari del sistema costituzionale, talche'  il  suo  venir
 meno   ne   altererebbe   l'assetto   complessivo.   Di  conseguenza,
 l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito,  ne'
 avrebbe  potuto  scalfirlo.   Per altro verso, l'eliminazione di ogni
 contaminazione funzionale tra giudice e organo dell'accusa  -  specie
 in  tema  di  formazione  della  prova e di liberta' personale -, non
 comporta  che,  sul  piano  strutturale  ed  organico,  il   pubblico
 ministero  sia  separato  dalla  Magistratura  costituita  in  ordine
 autonomo ed indipendente. Nell'architettura della delega, infatti, il
 ruolo del pubblico ministero non e' quello di mero accusatore, ma pur
 sempre di  organo  di  giustizia  obbligato  a  ricercare  tutti  gli
 elementi  di  prova rilevanti per una giusta decisione, "ivi compresi
 gli  elementi  favorevoli  all'imputato"  (cfr.    dir.  n.   37...).
 Coerentemente  a cio', il legislatore delegato ha sottolineato che il
 "potere-dovere del p.m. di estendere le proprie indagini a tutto cio'
 che puo' formare oggetto di prova per l'accusa  o  la  difesa"  tende
 "nel  rispetto  assoluto  dei  principi del sistema accusatorio e del
 ruolo  di  ''parte''    ad  evidenziare  la   natura   ordinamentale,
 giudiziaria  e pubblica dell'istituto e della funzione" (relazione al
 progetto preliminare, 91); ed  ha  poi  confermato  tale  natura  nel
 redigere  il  nuovo  art.  190  dell'ordinamento giudiziario (art. 29
 testo allegato al d.P.R.  22  settembre  1988  n.  449).    3.  -  Il
 principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga
 sottratto  al  controllo  di legalita' effettuato dal giudice:  ed in
 esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene definito  favor
 actionis.   Cio'  comporta  non  solo  il  rigetto  del  contrapposto
 principio di opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi  ad
 azione  facoltativa  ...;  ma  comporta,  altresi', che in casi dubbi
 l'azione vada esercitata e non omessa".  Proprio come  aspetto  della
 obbligatorieta' ed indisponibilita' nonche' dell'esercizio imparziale
 nei  confronti  di  tutti dell'azione penale, la Corte ha evidenziato
 alcuni caratteri che essa ha assunto all'interno dello stesso  codice
 del  1998 proprio come applicazione concreta della sua configurazione
 costituzionale: -  il  principio  di  tendenziale  completezza  delle
 indagini  (v.  anche  sent.  n.  92 del 1992), il principio di tutela
 della effettivita' dell'azione, volto a contrastare  i  casi  di  suo
 esercizio  meramente  apparente,  principio  questo  manifestatosi in
 istituti  quali  l'indicazione  da  parte  del  g.i.p.  di  ulteriori
 indagini  ritenute  necessarie  (art.  409  comma 4, 415, 554 comma 2
 c.p.p.,  sentt.  n.  409  del  1990,  445  del  1990),  l'opposizione
 dell'offeso  alla richiesta di archiviazione, il potere di avocazione
 del Procuratore generale, l'ordine di  formulazione  dell'imputazione
 E'  infine utile ricordare che le superiori considerazioni sono state
 riprese e valorizzate dalla Corte nella  sentenza  n.  111  del  1993
 (par.  6),  proprio  quando  si  e'  trattato di individuare i limiti
 costituzionali ad un processo penale  inteso  come"...  'processo  di
 parti',  nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti
 contrapposte operanti sul medesimo piano  ..."  o  come  "tecnica  di
 risoluzione dei conflitti".
  Spostando  l'attenzione dal tema dell'azione e della giurisdizione a
 quello, strettamente connesso, dello scopo  del  processo  penale  la
 Corte  costituzionale  ha  avuto  modo  di  affermare  che  esso deve
 individuarsi nell'"accertare i fatti onde pervenire ad una  decisione
 il  piu'  possibile  corrispondente  al  risultato voluto dal diritto
 sostanziale" e che, anche dopo l'entrata in  vigore  del  codice  del
 1988  ad  impianto  tendenzialmente  accusatorio,  "fine  primario ed
 ineludibile del processo penale non puo' che  rimanere  quello  della
 ricerca  della  verita'" (sentt. n. 111 del 1993, n. 255 del 1992, n.
 258 del 1991).  I presupposti costituzionali di tali affermazioni  si
 rinvengono  agevolmente leggendo le summenzionate pronunce, oltre che
 la sent.  n. 88 del 1991: esse sono fatte derivare direttamente dalla
 lettura combinata del principio di uguaglianza dei cittadini dinnanzi
 alla legge penale, dal principio di legalita' "che rende doverosa  la
 punizione  delle  condotte penalmente sanzionate" (sentt. nn. 111 del
 1993, 88 del 1991) e di inviolabilita' della liberta'  personale.  Ma
 ad   essi  si  potrebbero  agevolmente  aggiungere  il  principio  di
 personalita' della responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per
 il fatto commesso che gli  sia  psicologicamente  imputabile,  dunque
 sono  il  fatto  e  la  sua  imputabilita'  l'oggetto  del processo e
 dell'accertamento), il principio di presunzione di innocenza (l'onere
 della prova in capo all'accusa e'  criterio  nel  contempo  logico  e
 garantistico  che  dimostra  l'impegno dell'ordinamento nella ricerca
 della verita'), il principio di  obbligatorieta'  dell'azione  penale
 (l'azione  e'  obbligatoria  anche  perche' non ad altro tende se non
 all'accertamento secondo verita' dell'ipotesi contenuta nella notizia
 di reato ed all'applicazione della legge, seppure in modi diversi  da
 quelli  processuali), nel principio di difesa (la verita' puo' essere
 affermata solo se "garantita" dalla presenza attiva della difesa  nel
 processo),  nel  principio  di  indipendenza  e  liberta'  morale del
 giudice in particolare nel  momento  del  giudizio  (principi  questi
 ultimi  inutili  o  dannosi  se il giudizio dovesse servire a qualche
 cosa di diverso che alla ricostruzione del fatto ed  all'applicazione
 della legge).
   Tanto  premesso,  la Corte ha riconosciuto che il legislatore aveva
 scelto,   come   metodo   migliore   per    perseguire    lo    scopo
 costituzionalmente  assegnato al processo, quello del contraddittorio
 dibattimentale che, insieme all'esigenza di accentuare  la  terzieta'
 del  giudice,  aveva "condotto ad introdurre, di massima, un criterio
 di separazione funzionale  delle  fasi  processuali,  allo  scopo  di
 privilegiare  il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come
 strumento  per  favorire  la  dialettica  del  contraddittorio  e  la
 formazione  nel  giudice  di  un  convincimento  libero  da influenze
 pregresse"  (sent.  n.  111  del  1993).    La  Corte   ha   tuttavia
 immediatamente  osservato  che, proprio perche' lo scopo del processo
 penale  non  puo'  che  individuarsi  nella  ricerca  della  verita',
 "...l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non
 rappresenta,  nella  disciplina  del  codice, il veicolo esclusivo di
 formazione della prova nel dibattimento ... di guisa  che  in  taluni
 casi  in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato
 rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
 atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento" (sent.  n.  255
 del  1992) e, per altro aspetto: "... ad un ordinamento improntato al
 principio di legalita' (art. 25 comma 2, Cost.) - che rende  doverosa
 la  punizione  delle  condotte  penalmente  sanzionate  -  nonche' al
 connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale (cfr.  sent.
 n.  88  del  1991,  cit.)  non  sono  consone  norme  di  metodologia
 processuale che ostacolino  in  modo  irragionevole  il  processo  di
 accertamento  del  fatto storico necessario a pervenire ad una giusta
 decisione (cfr. sent. n. 255 del 1992)" (sent. n. 111 del 1993).   La
 Corte  ha  altresi'  comprovato  il  fondamento  di tali affermazioni
 elencando i numerosi casi di formazione della prova in  deroga  o  al
 contraddittorio  dibattimentale  o  all'altro  aspetto  dell'oralita'
 costituito dall'immediato contatto  del  giudice  con  la  prova  nel
 momento  della sua formazione (artt. 392, 431, 500 comma 4, 503 commi
 5 e 6, 512, 513) (sent. n. 255 del 1992); ha  individuato  la  ragion
 d'essere  di  quelle  eccezioni  nella  necessita'  di non disperdere
 elementi di prova "non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili
 con il metodo orale"; ha infine denominato tale fenomeno, considerato
 il numero e la qualita'  delle  deroghe  previste  al  metodo  orale,
 "principio  di  non dispersione delle prove" (sent. n. 255 del 1992).
 La  Corte  ha  dunque   correttamente   rilevato   -   qualificandolo
 "principio"  a  causa  della sua obiettiva imponenza - la presenza in
 seno al codice un procedimento probatorio alternativo  e  sussidiario
 rispetto  al  principale  fondato  sul  contraddittorio per la prova,
 procedimento   attivabile   quando   quello    principale    sia    o
 nell'impossibilita'  di  funzionare o nell'impossibilita' di produrre
 elementi  di  prova  genuini.    La  presenza  di  tale  procedimento
 alternativo e sussidiario, come reso evidente dalla lettura combinata
 delle  pronunce  che  si  vanno  citando, e' fondata da un lato sulla
 configurazione costituzionale ed istituzionale del pubblico ministero
 e,  dall'altro,  sulla  necessita'  di  affermare  il  principio   di
 indefettibilita'  della  giurisdizione  penale,  principio  anch'esso
 strettamente a sua volta collegato  a  quelli  di  uguaglianza  e  di
 legalita'.    Proprio sviluppando il tema dell'ampiezza degli effetti
 di tali affermazioni con riferimento non solo alla  fase  procedurale
 dell'ammissione  della  prova,  ma  anche  a quello della valutazione
 degli elementi acquisiti, la Corte ha avuto  modo  di  affermare  non
 solo  che  ad un ordinamento improntato ai principi suindicati non si
 confanno norme di metodologia  processuale  che  ostacolino  in  modo
 irragionevole   il   processo   di  accertamento  del  fatto  storico
 necessario per pervenire ad una giusta decisione, ma anche che simili
 regole di predeterminazione legale del valore persuasivo delle  prove
 sono  altresi'  dissonanti  rispetto  al  principi di fondo del nuovo
 codice, che "fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali  non
 poteva  essere  altrimenti)  il  principio  del libero convincimento,
 inteso come liberta' del giudice di  valutare  la  prova  secondo  il
 proprio  prudente  apprezzamento,  con  l'obbligo  di  dar  conto  in
 motivazione dei criteri adottati e dei  risultati  conseguiti'  (art.
 192  c.p.p.;  cfr.  sent.  n.  255 del 1992, cit.)" (sent. n. 111 del
 1993).   Anche con riferimento al tema  del  ruolo  delle  parti  nel
 processo  e  dell'esistenza  di  un  preteso principio dispositivo in
 materia di prova la Corte, nella sentenza  n.  111  del  1993  si  e'
 pronunciata  con chiarezza cristallina: "La configurazione del potere
 istruttorio conferito al giudice dall'art. 507  come  eccezionale,  e
 quindi  da  escludere in caso di decadenza o inattivita' delle parti,
 discende,  nella   logica   presupposta   dai   giudici   remittenti,
 dall'assunzione  dell'immanenza  nel  nuovo  codice, come conseguenza
 della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in  materia  di
 prova.  Si  tratta,  pero', di un assunto che non trova riscontro ne'
 nei principi della delega ne'  nel  tessuto  normativo  concretamente
 disegnato  nel codice.  E', per la verita', incontroverso che sarebbe
 contrario   ai   principi   costituzionali   di   legalita'   e    di
 obbligatorieta'  dell'azione  concepire  come  disponibile  la tutela
 giurisdizionale  assicurata  dal  processo  penale.   Cio',   invero,
 significherebbe,  da  un  lato,  recidere  il  legame  strutturale  e
 funzionale tra lo strumento  processuale  e  l'interesse  sostanziale
 pubblico  alla  repressione  dei  fatti  criminosi  che quei principi
 intendono garantire; dall'altro, contraddire  all'esigenza,  ad  essi
 correlata,  che  la  responsabilita' penale sia riconosciuta solo per
 fatti realmente commessi, nonche' al  carattere  indisponibile  della
 liberta'  personale.    Sotto questo profilo, e' significativo che il
 nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle
 parti vincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che
 ad un simile esito non conduce neanche  l'istituto  dell'applicazione
 di  pena  su richiesta (cfr. sent. n. 313 del 1990).  Ma un principio
 dispositivo non puo' dirsi esistente neanche  sul  piano  probatorio,
 perche'  cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la
 stessa res iudicanda.  Ed anche qui la riprova si ha nell'altro  rito
 speciale  in  cui  maggior  spazio  e'  riservato alla volonta' delle
 parti, dato che in esso l'accordo di queste sulle prove  utilizzabili
 non  vincola  il  giudizio  sulla  loro concludenza; ed anzi non puo'
 neppure essere inteso - come ripetutamente segnalato da questa  Corte
 (sentt.  nn.  92  del  1992  e  56  del  1993)  -  come assolutamente
 preclusivo delle integrazioni  probatorie  eventualmente  necessarie,
 pena  la  sua  incompatibilita'  con  i principi costituzionali.   Ma
 l'assunzione di un principio dispositivo  in  materia  di  prova  non
 trova  riscontro  nella  normativa  positiva  neanche sul terreno del
 giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova  e'
 stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto
 maggiormente  idoneo al loro per quanto possibile pieno accertamento,
 e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico tra le  parti  sulla
 verita'  reale:  altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione
 conoscitiva del processo, che discende dal principio di  legalita'  e
 da   quel   suo  particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale.
   Ma e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza  di  un
 potere dispositivo delle parti in materia di prova.
   Questa  Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del
 1992, che tale norma - inserita "in un sistema processuale imperniato
 su un ampio  riconoscimento  del  diritto  alla  prova  e  nel  quale
 l'acquisizione  del  materiale  probatorio  e' rimessa in primo luogo
 all'iniziativa delle parti" - "conferisce al giudice il potere-dovere
 d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui  la
 carenza  o insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle
 parti  impedisca  al  dibattimento  di  assolvere  la   funzione   di
 assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto
 del   processo,   onde   consentirgli  di  pervenire  ad  una  giusta
 decisione". Richiamata quindi la sentenza delle sezioni  unite  della
 Corte  di cassazione n. 11227 del 6 novembre-21 novembre 1992 nonche'
 la direttiva n. 73 della legge delega - che prevede  il  "potere  del
 presidente  ...  o  del  pretore di indicare alle parti temi nuovi od
 incompleti utili alla ricerca della verita' e  di  rivolgere  domande
 dirette  ...";  potere  del giudice di disporre l'assunzione di nuovi
 mezzi di prova - la Corte cosi'  proseguiva:    "...  Il  legislatore
 delegante   ha   cioe'  esattamente  considerato  -  in  armonia  con
 l'obiettivo di  eliminazione  delle  disuguaglianze  di  fatto  posto
 dall'art.  3, comma 2, della Costituzione che la 'parita' delle armi'
 delle  parti  normativamente  enunciata  puo'  talvolta  non  trovare
 concreta  verifica  nella  realta'  effettuale,  si'  che  il fine di
 giustizia   della   decisione   puo'   richiedere    un    intervento
 riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di
 esse,  cosi'  evitando  assoluzioni o condanne immeritate.  Il potere
 conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere  suppletivo,
 ma   non   certo  eccezionale  E'  del  resto  evidente  che  sarebbe
 contraddittorio, da un  lato  garantire  l'effettiva  obbligatorieta'
 dell'azione  penale  contro le negligenze o le deliberate inerzie del
 pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini  preliminari
 il  potere  di  disporre  che  costui  formuli  l'imputazione ...; e,
 dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad
 analoghe condotte della parte pubblica" (sent. n. 111 del 1993).   In
 sostanza,  nella  pronuncia  appena indicata la Corte ha riconosciuto
 incompatibile  con  i   principi   costituzionali   di   uguaglianza,
 legalita',  obbligatorieta'  dell'azione  penale,  un processo penale
 ridotto a "... tecnica di  risoluzione  delle  controversie  nel  cui
 ambito  al  giudice  sarebbe  riservato  essenzialmente  un  ruolo di
 garante  dell'osservanza  delle  regole  di  una  contesa  tra  parti
 contrapposte,  ed  il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i
 fatti reali  onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu'  possibile
 corrispondente  al  risultato  voluto  dal diritto sostanziale, ma di
 attingere - nel presupposto di  un'accentuata  autonomia  finalistica
 del  processo  -  quella sola 'verita'' processuale che sia possibile
 conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e  nel
 rispetto  di  rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al
 modello".   Parimenti indicata  come  incompatibile  con  i  suddetti
 principi e' stata considerata l'operativita' - propria di un processo
 di parti - "di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio",
 operativita'  cui conseguirebbe "da un lato, l'espansione degli spazi
 di  discrezionalita'   della   parte   pubblica   e   l'accentuazione
 dell'oralita'   come   strumento  della  formazione  della  prova  in
 dibattimento; dall'altro, la configurazione del potere di  intervento
 del   giudice   in   materia   di   prova   come   eccezionale  ...".
 Giurisprudenza contraria a concedere rilevanza ed effetti sostanziali
 alla mera espressione della volonta' di una  parte  -  seppure  parte
 pubblica   cui   sono  proprie  logiche  e  finalita'  esclusivamente
 istituzionali - si e' formata anche con riferimento  alla  originaria
 disciplina  dell'applicazione  della pena su richiesta e del giudizio
 abbreviato.  Con riferimento al primo tipo di  giudizio,  infatti  la
 Corte  ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 444 comma 2 c.p.p. in
 quanto, "prevedendo che il giudice debba attenersi  alla  pena  cosi'
 come indicata dalle parti, ... non consente di valutare la congruita'
 della  pena  ai  fini  e nei limiti di cui all'art. 27 comma 3 Cost."
 (sent. n.  313 del 1990).   Con riferimento  al  rito  abbreviato  la
 Corte,  nella  sentenza n.  81 del 1991, dichiarando l'illegittimita'
 parziale del combinato  disposto  degli  artt.  438,  439,  440,  442
 c.p.p.,  ha  affermato  "E', invece, fondata la questione proposta in
 riferimento  all'art.  3  della   Costituzione   sotto   il   profilo
 dell'irrazionale   disparita'   cui  la  normativa  impugnata,  vista
 dall'interno della sua applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti
 fra p.m. ed imputato, quanto nei rapporti tra imputato  ed  imputato.
 Non risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza una
 disciplina  che  autorizza ad opporsi non soltanto a una 'determinata
 scelta  del  rito  processuale'  ...,  ma  anche  a  una  consistente
 riduzione  della pena da infliggere all'imputato in caso di condanna,
 senza neppure dover esternare le ragioni di tale  opposizione,  cosi'
 sottraendola  all''obiettiva  ed imparziale valutazione del giudice'.
 Per giunta, in un sistema, come quello del nuovo  codice,  imperniato
 sul  principio  di 'partecipazione dell'accusa e della difesa su basi
 di parita' in ogni stato e grado del procedimento' (art. 2 n. 3 legge
 16 febbraio 1987, n.  81),  non  dovrebbe  essere  consentito  che  i
 rapporti  fra  p.m.  ed imputato si sbilancino al punto che il primo,
 con  un  semplice   atto   di   volonta'   immotivato   e,   percio',
 incontrollabile,  si  trovi  in  grado  di  privare  il secondo di un
 rilevante vantaggio sostanziale" (sent. n. 81 del  1991).    Di  tale
 sentenza e di quella n. 66 del 1990, la Corte ha reso interpretazione
 autentica  nel  momento in cui, in seno alla sentenza n. 92 del 1992,
 ha  rilevato:  "Il  nucleo  essenziale  di  tali  decisioni  sta  nel
 riconoscimento     dell'incompatibilita'     con    un    ordinamento
 costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e legalita'  della
 pena,  di  una  disciplina  che  affida(va)  a scelte discrezionali -
 immotivate  e,  quindi,  insindacabili  -  del   pubblico   ministero
 l'accesso   dell'imputato   ad   un   rito   dal  quale  scaturiscono
 automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione  della  pena".
 Traendo  le  conseguenze  delle  superiori  affermazioni la Corte con
 riferimento alla fase  dibattimentale  e  mediante  la  pronuncia  di
 sentenze di accoglimento od interpretative di rigetto, ha considerato
 ostacoli irragionevoli o in se stessi o rispetto al sistema:
   a)  il divieto di testimonianza de relato della polizia giudiziaria
 (sent. n. 24 del 1992);
   b) l'omessa previsione  dell'acquisizione  delle  dichiarazioni  di
 imputati  in  procedimento  connesso,  anche  se  rese  alla  polizia
 giudiziaria su delega del pubblico ministero, quando essi si  fossero
 avvalsi  in dibattimento della facolta' di non rispondere (sentt.  n.
 254 del 1992 e n. 60 del 1995);
   c) l'utilizzo solo ai fini della valutazione di credibilita'  delle
 dichiarazioni  predibattimentali  utilizzate  per le contestazioni ai
 testimoni (sent. n. 255 del 1992).
   Inoltre la Corte ha:
   a)  riconosciuto  l'acquisibilita'  ex  art.   512   c.p.p.   delle
 dichiarazioni   dei  prossimi  congiunti  che  si  siano  avvalsi  in
 dibattimento della facolta' di  non  rispondere  (sent.  n.  179  del
 1994);
   b)   riconosciuto   l'acquisibilita'   ex  art.  512  c.p.p.  delle
 dichiarazioni predibattimentali del teste affetto da amnesia assoluta
 sui fatti di causa, dovuta ad infermita' (ord. n. 20 del 1995).
   Sempre in forza dei summenzionati principi, inoltre,  la  Corte  ha
 dichiarato legittimo l'art. 507 c.p.p. solo se interpretato nel senso
 che  esso consentisse, nell'inerzia delle parti, l'impulso giudiziale
 nella acquisizione della prova (sent. n.  111  del  1993).    4.3.  -
 Profili   di   non   manifesta   infondatezza   della   questione  di
 legittimita'.   Tracciato il  quadro  generale  della  giurisprudenza
 della  Corte costituzionale rilevante in materia, occorre procedere a
 verificare se, rispetto alla disciplina dell'art. 513 comma 2  c.p.p.
 come   sostituito  dall'art.    1,  legge  n.  267  del  1997,  siano
 ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati.  Il
 tribunale rinviene varie prospettive di violazione, quanto  meno  non
 manifestamente   infondate.    4.3.1.  -  Lesione  del  principio  di
 uguaglianza per previsione, con  riferimento  alle  dichiarazioni  di
 imputato  in  procedimento  connesso  rese  al  pubblico  ministero e
 divenute irripetibili a seguito dell'esercizio della facolta' di  non
 rispondere, di una disciplina irragionevolmente diversificata, quanto
 ad  utilizzabilita'  dibattimentale,  rispetto a tutti gli altri atti
 divenuti  imprevedibilmente  od  inevitabilmente  irripetibili.    Il
 problema  che  si  e'  posto all'attenzione di questo tribunale, come
 configurato nei precedenti paragrafi, e'  se  sia  costituzionalmente
 corretto  che, nell'ambito di un sistema accusatorio, il legislatore,
 allo scopo  di  tutelare  il  contraddittorio,  abbia  introdotto  un
 meccanismo  che,  conferendo  a  ciascuna  delle  parti  il potere di
 impedire   con    una    semplice    manifestazione    di    volonta'
 l'utilizzabilita'  in  dibattimento di elementi di prova raccolti dal
 pubblico ministero  in  assenza  di  contraddittorio  e  di  cui  sia
 inevitabilmente     sopravvenuta    l'irripetibilita'.        Occorre
 immediatamente notare che lo  stesso  sistema  codicistico,  come  si
 evince  dalla ricostruzione operata al par. 4.1, prevede, in linea di
 principio, la piena utilizzabilita'  dibattimentale  degli  atti  del
 pubblico  ministero  la  cui  irripetibilita'  fosse  prevedibile  ma
 inevitabile  nonche'  degli  atti  della  categoria  omogenea,  cioe'
 quelli,   rispetto   ai   quali   il   sopravvenire  della  causa  di
 irripetibilita' fosse imprevedibile (art. 512 c.p.p.).  Cio' posto il
 problema e' se, con riferimento ad alcuni di essi -  segnatamente  le
 dichiarazioni  delle  persone indicate dall'art.   210 c.p.p. assunte
 nel corso delle indagini e divenute  irripetibili  per  esercizio  da
 parte  loro  della  facolta'  di  non  rispondere  -, sia ragionevole
 introdurre un meccanismo di possibile  preclusione  dell'acquisizione
 dibattimentale  fondato  sulla  mera manifestazione di volonta' delle
 parti indirizzata all'esclusione della prova.   Cosi'  impostato,  il
 problema e' facilmente risolvibile in base all'applicazione dell'art.
 3  Cost.   Invero non appare ne' sussiste alcuna ragione per porre la
 prova di cui si discorre, a differenza delle altre inevitabilmente od
 imprevedibilmente divenute irripetibili, nella totale  disponibilita'
 di  ciascuna  parte.    L'insussistenza  di  tale  ragione  si coglie
 vieppiu' considerando il valore che lo stesso legislatore  conferisce
 a   quei   medesimi   atti,  addirittura  prima  che  siano  divenuti
 irripetibili.  Si tratta certamente di atti  formati  in  assenza  di
 contraddittorio ed in segreto, ma si tratta anche di atti compiuti da
 un  organo  giudiziario,  pubblico,  indipendente,  la  cui azione e'
 rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale della legge (sent.
 n. 88 del 1991). Si tratta altresi di atti che godono di  particolari
 garanzie  quanto  alla  rispondenza  alla realta' del loro contenuto,
 trattandosi  di  verbali.    Proprio  per  questa  loro   particolare
 affidabilita',  la  legge  conferisce  utilizzabilita'  agli elementi
 raccolti dal p.m.nelle indagini  con  riferimento  sia  ad  atti  che
 spiegano  i  loro effetti all'interno della fase delle indagini (es.:
 esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme), sia ad atti  che
 spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine
 di  emettere  sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone
 il giudizio), sia ad  atti  che  incidono  profondamente  su  diritti
 costituzionali  primari  dei cittadini (es.:  emissione di decreti di
 perquisizione e sequestro, adozione di misure  cautelari  personali).
 Se  agli  atti  di  cui  si  discorre  vengono conferiti tali e tanti
 effetti in sede di indagini e' poi irrazionale prevedere che di essi,
 a  differenza  di  altri,  quando  siano   divenuti   inevitabilmente
 irripetibili,  sia  preclusa  l'utilizzazione dibattimentale solo che
 una  parte  manifesti  in  tal  senso  la  sua  volonta',  con   atto
 discrezionale,  immotivato  ed  insindacabile.    4.3.2.  -  Ostacolo
 irragionevole alla formazione della prova, alla funzione  conoscitiva
 del   dibattimento  ed  all'esercizio  della  giurisdizione  mediante
 l'introduzione  di  un  meccanismo  di  disposizione   della   prova:
 contrasto  con  gli artt. 3, 25 comma secondo, 101 comma secondo, 102
 comma primo, 111 comma primo, Cost.  Con riferimento a questo profilo
 rileva quanto assai nitidamente affermato nelle sentenze  n.  88  del
 1991,  241,  254  e  255 del 1992, 111 del 1993.  Se il processo deve
 tendere alla ricerca della verita' reale, se il processo in  generale
 ed  il dibattimento in particolare hanno una funzione conoscitiva del
 fatto  che   ne   e'   oggetto,   se   il   pubblico   ministero   e'
 istituzionalmente  organo  di  giustizia  che  si  muove  al  fine di
 applicare la legge e compie validamente atti normativamente  previsti
 su  cui  possono  fondarsi  per  legge  altri  atti lesivi di diritti
 costituzionali  primari,  se  il  codice  stesso   prevede   numerosi
 meccanismi  di  recupero  dell'utilizzabilita'  di  atti  formati dal
 pubblico  ministero  quando  siano  divenuti   imprevedibilmente   od
 inevitabilmente  irripetibili  cioe'  quando il contraddittorio sia -
 per ragioni materiali o giuridiche - divenuto impossibile senza  che,
 percio',    l'omessa   rinnovazione   dell'atto   nelle   forme   del
 contraddittorio genetico sia imputabile al pubblico ministero, allora
 sembra evidente dover dubitare di un meccanismo processuale  che  per
 un  verso si risolve nel precludere l'esercizio dell'azione penale e,
 per altro verso, nel precludere l'utilizzazione da parte del  giudice
 di atti che appartengono a quelle categorie, in tal modo impedendogli
 di accertare il fatto e, in base a tale accertamento, di pervenire ad
 una   giusta   decisione.   I  diversi  aspetti  di  tale  sillogismo
 necessitano di una spiegazione analitica.  Anzitutto va  vagliata  la
 conformita'   della   disciplina   in   questione   al  principio  di
 razionalita' nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt.  3
 e 112 cost.).
   Chiariti  come sopra la natura ed il valore degli atti compiuti dal
 pubblico ministero  -  ed  in  particolare  delle  dichiarazioni  dei
 coimputati  o  degli  imputati  in  procedimento  connesso -, occorre
 considerare che il loro utilizzo ai fini sopra indicati non  e',  per
 il   p.m.,   facoltativa,   ma   e',  in  base  all'art.  112  cost.,
 obbligatoria.
   Ne deriva che costituisce un irragionevole  ostacolo  al  razionale
 esercizio  dell'azione  penale, oltre che una evidente contraddizione
 ordinamentale, disporre che atti sui quali il pubblico  ministero  ha
 fondato  il  doveroso  esercizio  della  sua  funzione,  quando siano
 divenuti imprevedibilmente  od  inevitabilmente  irripetibili  -  con
 conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al pubblico
 ministero  medesimo -, siano utilizzabili in dibattimento solo con il
 consenso di tutte le  altre  parti  processuali,  tra  le  quali  gli
 imputati  nei  confronti  dei quali il contenuto di tali atti ha gia'
 spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti.  Risulta  cioe'
 irrazionale  da un lato imporre al pubblico ministero di raccogliere,
 in modo tendenzialmente completo, elementi di prova circa  il  fatto,
 imporgli  di  chiedere  misure  cautelari  eventualmente ottenendole,
 introdurre meccanismi  di  garanzia  contro  l'inerzia  del  pubblico
 ministero,   e   poi,   quando   quegli   elementi   siano   divenuti
 imprevedibilmente  od  inevitabilmente  irripetibili,  conferire   al
 soggetto   controinteressato   il   potere  di  disporre  della  loro
 utilizzabilita'  addirittura  in  dibattimento,  cioe'   nella   fase
 processuale  in cui il pubblico ministero combatte per l'accertamento
 pieno della responsabilita'.   L'irragionevolezza appare  ancor  piu'
 evidente  laddove  si  considerino  due  aspetti.    Anzitutto, sotto
 l'aspetto degli interessi  tutelati  da  una  norma  simile,  occorre
 osservare che la scelta delle parti diverse dal pubblico ministero ed
 in  particolare quella dell'imputato in ordine a prove formate contro
 di lui risponde a logiche che, per la natura del  soggetto  investito
 del potere, non possono essere che strettamente egoistiche e comunque
 privatistiche.    Sotto  il  diverso  aspetto  della  forma giuridica
 dell'atto preclusivo della utilizzazione della prova risulta evidente
 che  trattasi  di  pura  manifestazione  di   volonta',   come   tale
 discrezionale,  immotivata  ed insindacabile.  Riformulando, adattato
 al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 81 del 1991  si
 potrebbe  dire che "non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra
 p.m. ed imputato si sbilancino  al  punto  che  il  secondo,  con  un
 semplice  atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si
 trovi in grado di privare il primo degli elementi di prova,  divenuti
 imprevedibilmente  od  inevitabilmente irripetibili, in base ai quali
 ha legittimamente esercitato sino a quel  momento  l'azione  penale".
 Riformulando,  adattato  al  caso  che  ne occupa, un passaggio della
 sentenza  n.  111  del  1993   si   potrebbe   dire:   "...   sarebbe
 contraddittorio,  da  un  lato  garantire l'effettiva obbligatorieta'
 dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate  inerzie  del
 pubblico  ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari
 il  potere  di  disporre  che  costui  formuli  l'imputazione...;  e,
 dall'altro,  consentire  che  l'utilizzo  di atti delle indagini, sui
 quali si e'  fondato  l'esercizio  dell'azione  penale  sino  a  quel
 momento e divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili,
 possa  essere  impedito dallo stesso pubblico ministero o dalle altre
 parti con una nuda ed immotivata manifestazione di volonta'".  Non e'
 poi il caso di approfondire - perche' qui irrilevante - la situazione
 in  cui  sia  lo  stesso  p.m.   ad   opporsi   all'acquisizione   di
 dichiarazioni  di  soggetti  indicati  dall'art.  210 rese in sede di
 indagini  e  divenute  inevitabilmente  irripetibili  per  rifiuto di
 rispondere opposto dall'interessato in dibattimento: ci si troverebbe
 di fronte o ad uno stigma irreparabile inferto al diritto  di  difesa
 dell'imputato,  quando  si tratti dell'acquisizione di elementi a lui
 favorevoli, o ad una cripto-ritrattazione dell'azione penale,  quando
 si  tratti di elementi d'accusa. In entrambi i casi atti disciplinati
 dalla normativa di cui si discute ma costituzionalmente incompatibili
 con gli artt. 24 e 112 Cost.: in un caso identico - decadenza colposa
 o dolosa del p.m. dal diritto di richiedere le prove  per  omessa  od
 intempestiva  presentazione  della  lista  testimoniale - la Corte ha
 salvato il sistema solo perche' esso  prevede,  mediante  l'art.  507
 c.p.p.,  il recupero di quelle prove. Un recupero pero' evidentemente
 non consentito dalla normativa introdotta dall'art. 1,  legge  n.  67
 del  1997.    Va  altresi'  data risposta negativa, per quanto qui e'
 possibile, circa la  compatibilita'  tra  la  disciplina  di  cui  si
 discute  e la funzione conoscitiva, di tendenziale accertamento della
 verita' reale, attribuita dalla Costituzione al processo penale.   E'
 indubbio,  infatti,  che  la  sottoposizione  all'accordo delle parti
 della  lettura  e   quindi   dell'acquisizione   di   atti   divenuti
 inevitabilmente  irripetibili costituisca un ostacolo alla formazione
 del convincimento giudiziale e quindi all'approssimarsi del risultato
 processuale alla verita', nella parte in cui consente che  tali  atti
 siano  -  senza  alcuna  possibilita'  di  rimedio - sottratti a quel
 convincimento mediante una manifestazione di volonta'  discrezionale,
 insindacabile   ed   immotivata.      Occorre  tuttavia  valutare  la
 ragionevolezza della introduzione di siffatto ostacolo.   Si e'  gia'
 notato   che,   rispetto   a  situazioni  identiche,  si  coglie  con
 immediatezza  una  ingiustificabile  differenza.  Solo   rispetto   a
 dichiarazioni  di imputati in procedimento connesso (o di coimputati)
 che si avvalgano della facolta' di non rispondere e' stato introdotto
 il potere delle parti di impedirne ad nutum  l'utilizzo,  mentre  con
 riferimento   ad   altre   identiche  situazioni  di  inevitabile  od
 imprevedibile irripetibilita' di atti dello stesso tipo, tale  potere
 non  e'  riconosciuto.   Della prima di tali situazioni costituiscono
 esempi, come si e' detto piu' sopra,  i  casi  di  dichiarazioni  del
 teste  morente assunte da p.m. o p.g. senza che vi sia stato il tempo
 tecnico  necessario   per   ceebrare   l'incidente   probatorio,   di
 dichiarazioni del cittadino straniero residente all'estero assunte da
 p.m. o p.g., di dichiarazioni del testimone prossimo congiunto che si
 avvalga  solo  in  dibattimento  della  facolta' di non sottoporsi ad
 esame.  Alla seconda categoria - governata dai  medesimi  principi  -
 appartengono   le   dichiarazioni   rese   al  p.m.  da  imputato  in
 procedimento  connesso  (o  coimputato)  di  cui   sia   sopravvenuta
 l'irreperibilita'  (art.  513,  comma  2, seconda parte), il decesso,
 l'infermita' produttiva  di  amnesia  sui  fatti  (art.  512),  o  di
 soggetto  che  decida  di  sottoporsi  all'esame  ma  si  astenga dal
 rispondere a singole domande (fatto  che  consente  contestazione  ed
 utilizzazione  delle dichiarazioni predibattimentali:  art. 503) e di
 testimone prossimo congiunto che si avvalga  della  facolta'  di  non
 rispondere  (sent.  n.  179 del 1994).  Ad essere precisi, gli ultimi
 due   casi   appartengono   ad   entrambe    le    categorie:    atti
 imprevedibilmente ed inevitabilmente irripetibili.
   Ne'  pare  che  la  diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta -
 naturale  (quale  il  decesso  o  l'infermita')  o  giuridica  (quale
 l'esercizlo  della facolta' di non rispondere) - o le diverse ragioni
 per cui l'omessa rinnovazione dell'atto di assunzione della prova  e'
 risultata non evitabile - naturale (quale la residenza all'estero del
 teste  straniero)  o  giuridica  (quale,  ancora,  l'esercizio  della
 facolta' di non rispondere) - possano in alcun modo  giustificare  la
 diversificazione  delle discipline dell'utilizzabilita' degli atti di
 cui si discute, poiche' l'effetto dell'azione di tali cause sull'atto
 e'  identico  (irripetibilita'  e  preclusione  della  rinnovabilita'
 dell'atto  assuntivo della prova non imputabile al p.m.) e perche' le
 uniche differenze - ad esempio: diritto di difesa attuale rispetto al
 vivo ma non rispetto al morto - riguardano il dichiarante, ma  non  i
 soggetti  attinti  dalle sue dichiarazioni rispetto al cui diritto al
 contraddittorio le diverse cause di  irripetibilita'  ed  inevitabile
 preclusione  alla  rinnovazione  dell'atto agiscono in modo identico,
 rendendolo impossibile.  Si tratta, lo si ribadisce, di casi identici
 - in cui il contraddittorio e' inibito senza che cio' sia  imputabile
 al   pubblico  ministero  -  alcuni  dei  quali  subiscono  pero'  un
 trattamento irragionevolmente diverso.  Esiste un  ulteriore  profilo
 di  irragionevolezza  nell'ostacolo  frapposto  alla formazione della
 prova mediante il procedimento alternativo e sussidiario  piu'  volte
 menzionato,  profilo  attinente proprio alla devoluzione alle partiin
 generale, ed in particolare  agli  imputati,  della  decisione  circa
 l'utilizzabilita'  in  dibattimento di elementi raccolti dal pubblico
 ministero in sede di indagini  (elementi  che  possono  spiegare  una
 diretta od indiretta efficacia probatoria a loro carico) e di cui sia
 sopravvenuta  imprevedibilmente od inevitabilmente l'irripetibilita'.
 La Corte costituzionale, come  si  e'  detto,  ha  gia'  avuto  modo,
 ragionando  su  fattispecie  di  decadenza  colposa o consapevolmente
 determinata del pubblico ministero dalla  prova,  di  affermare  come
 "incontroverso  che  sarebbe  contrario ai principi costituzionali di
 legalita'  ed  obbligatorieta'  dell'azione  penale  concepire   come
 disponibile   la   tutela  giurisdizionale  assicurata  dal  processo
 penale"; e, immediatamente dopo, che disporre della  prova  equivale,
 indirettamente,  a  disporre della stessa res iudicanda (sent. n. 111
 del 1993).   Parimenti incontroverso,  a  parere  del  tribunale  (v.
 supra)  e'  che  la  normativa  di  cui si tratta abbia introdotto il
 potere di ciascuna delle parti di disporre della  prova  e  che  cio'
 consenta   alle   medesime   -   secondo  l'insegnamento,  totalmente
 condiviso, della Corte (sent.    n.  111  del  1993)  -  di  disporre
 altresi',  indirettamente,  dell'oggetto  del  processo.    Ulteriore
 conferma di tale conclusione si rinviene considerando  di  nuovo  gli
 interessi  tutelati dal tipo di atto di cui si discute.  Trattandosi,
 come si e' detto, del potere attribuito alle parti del  processo,  di
 inibire  l'uso  di  prove,  l'aspetto di tutela del diritto di difesa
 appare prospettabile solo come  stimolo  per  il  p.m.    a  chiedere
 l'incidente  probatorio, atto questo, tuttavia, incapace di garantire
 l'assicurazione  della  prova   mediante   la   sua   assunzione   in
 contraddittorio  posto  che  anche  in  tale  sede  l'esaminato  puo'
 impedire l'esercizio del contraddittorio avvalendsi della facolta' di
 non rispondere (v. supra).   Deve altresi' osservarsi  che  la  Corte
 costituzionale  ha  costantemente affermato che il diritto di difesa,
 per quanto  inviolabile,  non  puo'  non  trovare  contemperamento  e
 bilanciamento   rispetto  ad  altri  concorrenti  principi  parimenti
 tutelati  dalla  Costituzione e che, quindi, il suo livello di tutela
 deve  essere  rapportato  alle   singole,   e   diverse,   situazioni
 processuali.   Nel caso di specie, la disciplina dell'utilizzabilita'
 delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato  in  procedimento
 connesso  che  si avvalga della facolta' di non rispondere introdotta
 dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n.  254  del  1992,
 tendeva  a  bilanciare  due  valori  diversi: l'esercizio dell'azione
 penale, ma soprattutto ed ancor di piu', l'esercizio  della  funzione
 giurisdizionale  stessa,  da  un lato, e, dall'altro, l'esercizio del
 diritto di difesa. Quest'ultimo  non  rimaneva  affatto  impedito  ma
 soltanto limitato dall'esercizio, da parte del coimputato od imputato
 in  procedimento  connesso,  del suo diritto di difesa, sub specie di
 diritto di non rispondere in dibattimento anche alle domande di  chi,
 direttamente   od  indirettamente,  aveva  accusato.  Impedito  cosi'
 l'esercizio del diritto di difesa nel momento di genesi della  prova,
 veniva   attivato  il  procedimento  sussidiario  ed  alternativo  di
 formazione della prova che comunque lasciava spazio  al  tradizionale
 esercizio  del  diritto  di  difesa  sulla  prova  formata  (oltre ad
 introdurre,   di   fatto,   argomenti   sfavorevoli    all'intrinseca
 credibilita'  del dichiarante).   Infine, quanto all'irragionevolezza
 dell'ostacolo frapposto dal nuovo art.  513,  comma  2,  c.p.p.  alla
 formazione  della  prova,  non  sembra  superfluo sottolineare che il
 potere concesso alle parti e' cosi'  ampio  -  si  parla  infatti  di
 accordo  "delle  parti"  e  non  gia' delle parti "interessate" - che
 ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla
 sua  posizione  -  ma  rilevanti  rispetto  a  posizioni  diverse   -
 senz'altro  scopo  che  il porre un impedimento al regolare esercizio
 della giurisdizione.  Ma la situazione si aggrava proprio  quando  la
 parte  -  in  particolare  l'imputato  -  si  oppone alla lettura di'
 dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico.    In  tal
 caso  infatti  -  posto  che  tali dichiarazioni non sono considerate
 ontologicamente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non  ne
 avrebbe  consentito  la  documentazione e l'utilizzo anche in fase di
 indagini preliminari ed  anche  a  fini  cautelari  -  il  meccanismo
 normativo  risulta  semplicemente  paradossale:  i veti incrociati di
 soggetti privati  -  quali  sono  gli  imputati  e  gli  imputati  in
 procedimento connesso - possono precludendo l'ingresso della prova in
 dibattimento,  finiscono  inevitabilmente per precludere (in tutto od
 in parte) l'esercizio  stesso  della  giurisdizione  e  prima  ancora
 quello  dell'azione  penale.    Considerato  che  i soggetti predetti
 agiscono, come  si  notava,  per  interessi  privatissimi  e  sinanco
 meramente   egoistici,   l'ostacolo   frapposto  all'esercizio  della
 giurisdizione non puo' non essere ritenuto irrazionale.    La  stessa
 Corte  costituzionale  (sent. n. 111 del 1993) ha infatti considerato
 illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero - organo cui
 pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate esclusivamente
 all'applicazione della legge (sent. n. 88 del 1991) - di disporre del
 processo disponendo della prova (potere riconosciutogli  dai  giudici
 di  merito  remittenti  grazie  ad una interpretazione dell'art.  507
 c.p.p. ritenuta illegittima).    A  questo  punto  non  si  puo'  non
 considerare   illegittimo   a   maggior   ragione   l'analogo  potere
 riconosciuto dalla legge a soggetti privati - quali sono gli imputati
 e la parte civile - che, come tali, orientano  i  loro  comportamenti
 secondo logiche meramente individualistiche.
   E'  altresi' prospettabile, considerate le precedenti osservazioni,
 una diretta violazione dell'art. 25, comma  2,  nella  parte  in  cui
 prevede  che  i colpevoli debbano essere puniti. E' invero quanto mai
 evidente che,  condizionando  l'utilizzo  da  parte  del  giudice  di
 elementi  di  prova  irripetibili  raccolti  durante  le  indagini al
 consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi  spiegano  la
 loro   efficacia  probatoria,  si  consente  che  l'imputato  stesso,
 mediante  una  scelta  discrezionale,  immotivata,  insindacabile  ed
 eventualmente   ispirata   ad  interessi  non  tutelabili,  impedisca
 l'accertamento  del   fatto   e   percio'   delle   sue   (eventuali)
 responsabilita'.
   In  sostanza, lo si ribadisce, si consente all'imputato, disponendo
 della prova a suo carico,  di  disporre  indirettamente  dell'oggetto
 stesso  del  processo,  in  violazione  - gia' riconosciuta una volta
 dalla Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  111  del  1993  con
 riferimento  all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art.
 507 c.p.p.   recepita dai giudici remittenti -  degli  artt.  3,  25,
 comma secondo, 27, comma primo, Cost.  Ne' puo' essere richiamato, in
 contrario  avviso,  il principio di presunta innocenza dell'imputato,
 poiche' esso,  se  fosse  interpretato  nel  senso  assolutistico  di
 conferimento  all'imputato del potere di interdire l'assunzione delle
 prove a suo carico, renderebbe inutile l'esercizio stesso dell'azione
 penale e  della  giurisdizione  annullando  il  valore  dei  connessi
 principi.    Va approfondito, seguendo prospettive gia' accennate, il
 contrasto della disciplina di cui si discute con gli artt. 101 e  111
 della  Costituzione.    E'  banale  osservare  che  la formazione del
 razionale e motivato convincimento giudiziale - artt. 3,  101,  comma
 secondo,  111  Cost.    - non e' solo parte integrante dell'esercizio
 della funzione giurisdizionale, ma e' cio' in cui lo scopo stesso del
 processo si invera.  Ebbene, a parere del tribunale, la normativa  di
 cui  si  tratta, introducendo il potere delle parti di disporre della
 prova  -  tale  essendo,  lo  si  ripete,  in  tutta  la  sistematica
 codicistica  l'elemento  raccolto  in  sede  di indagini dal pubblico
 ministero divenuto imprevedibilmente od inevitabilmente  irripetibile
 -  consente  di  sottrarla  alla razionale e motivata valutazione del
 giudice, in tal modo impedendogli di formarsi un convincimento che si
 avvicini il piu' possibile alla  reale  verificazione  dei  fatti  e,
 quindi,  impedendo  la pronuncia di una giusta decisione.  Vale anche
 notare che, almeno nella  materia  dell'utilizzabilita'  delle  prove
 processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve
 a  privati  quali  sono  gli  imputati,  gli imputati in procedimento
 connesso e la parte civile, la decisone ultima  e  definitiva,  oltre
 che  discrezionale,  immotivata  ed incontrollabile (tali non sono le
 scelte effettuate nell'ambito dei procedimenti  speciali,  che  hanno
 sempre  come  alternativa il giudizio ordinario) sull'utilizzabilita'
 delle prove, allora appare  violata  dalla  legge  stessa  la  regola
 secondo  cui  il giudice e' soggetto solo alla legge:  per il tramite
 formale di una norma giuridica  il  giudice  -  nell'esercizio  della
 funzione  che  gli  e'  piu'  propria,  il  giudizio  -  viene  fatto
 soggiacere alle decisioni altrui.  Ed ancora, sotto  l'aspetto  della
 corretta  e razionale formazione del convincimento giudiziale nonche'
 della - strettamente connessa - funzione conoscitiva assegnata  dalla
 Costituzione  al processo penale ed al dibattimento risulta rilevante
 non solo l'aspetto del diniego della difesa  alla  lettura  di  prove
 introdotte  dal  pubblico ministero, ma anche l'aspetto dell'assenso.
 Invero, la difesa  -  ma  l'osservazione  vale  per  tutte  le  parti
 processuali  -,  opportunamente negando e concedendo il loro consenso
 all'ingresso di alcune prove ma non di altre ben possono  costringere
 il  giudice a ricostruire il fatto in modo anche molto distante dalla
 sua reale verificazione o, quanto meno, dalla ricostruzione  che  del
 medesimo  sarebbe  razionalmente  preferibile  se  al giudice fossero
 fornite per intero e completamente le prove gia'  comunque  esistenti
 agli  atti  del pubblico ministero, la cui introduzione nel fascicolo
 per il dibattimento solo il nutum delle parti puo' impedire.  In  tal
 senso  il  contrasto  con quanto affermato dalla Corte costituzionale
 nelle sentenze n. 255 del 1992 e 111 del 1993 e' piu'  che  evidente.
 4.3.3. - Lesione dei principio di ragionevolezza dell'ordinamento per
 il  manifestarsi  di  suoi  aspetti  di  contraddittorieta' generale.
 Occorre,  a  questo  punto,  considerare   nel   suo   complesso   il
 funzionamento   del   sistema   e   la  sommatoria  di  (presumibili)
 illegittimita' costituzionali indicate in precedenza.  Considerate le
 questioni sul tappeto  da  questo  punto  di  vista,  si  impone  con
 evidenza  un  aspetto  di  contraddittorieta'  dell'intero sistema, e
 quindi di  lesione  dell'art.  3  Cost.,  con  riferimento  alla  sua
 operativita'  generale  come risulta a seguito dell'entrata in vigore
 dell'art. 1, legge n. 267 del 1997.   Si pensi a  questa  semplice  e
 frequentissima   situazione:   il  pubblico  ministero  raccoglie  le
 dichiarazioni di uno o piu' imputati in procedimennto connesso  ed  i
 debiti  riscontri; a seguito di cio' (adempiendo al dovere impostogli
 dall'art. 112 Cost.) chiede ed ottiene l'applicazione della  custodia
 cautelare  in  carcere;  in dibattimento l'imputato o gli imputati in
 procedimento connesso si avvalgono in dibattimento (od  in  incidente
 probatorio)  della  facolta' di non rispondere e l'imputato si oppone
 all'utilizzazione   delle   loro   dichiarazioni   predibattimentali;
 l'imputato,  a  seguito  di tale sottrazione di prova non solo verra'
 assolto ma  avra'  anche  diritto  ad  ottenere  la  riparazione  per
 ingiusta  detenzione ex art. 314 c.p.p.  L'ordinamento, all'evidenza,
 pone se stesso come generatore di illegittimita', quindi si  pone  in
 contraddizione  con se stesso.  5. - Non manifesta infondatezza della
 questione di legittimita' degli artt. 210, comma  4,  e  513,  c.p.p.
 nella  parte in cui prevedono che l'imputato in procedimento connesso
 che  abbia  reso  innanzi   al   pubblico   ministero   dichiarazioni
 direttamente  od  indirettamente  indizianti  a carico di determinati
 soggetti,  possa  avvalersi,  nel  dibattimento  a  carico  di   quei
 soggetti,  della facolta' di non rispondere.  Ritiene questo Collegio
 che le discrasie e le contraddizioni in cui si involge la  disciplina
 introdotta  con  l'art.  1, legge n. 267 del 1997 - ed in particolare
 quella di cui al comma 2, dell'art.  513, c.p.p. -, siano dovute alla
 creazione legislativa di un vero e proprio conflitto - in quanto tale
 irragionevole - tra diritto di difesa  ed  esercizio  della  funzione
 giurisdizionale.   Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un
 verso il diritto al contraddittorio degli imputati e, per altro verso
 il loro diritto a non sottoporsi all'esame dibattimentale -  entrambi
 espressione  del  piu' generale diritto di difesa -, la legge finisce
 per sacrificare l'esercizio della  giurisdizione:  in  nome  del  suo
 diritto  al  contraddittorio  ciascuna  parte  puo'  vietare ad nutum
 l'utilizzabilita' di dichiarazioni di un altro soggetto (imputato  in
 procedimento  connesso) che, in nome del suo diritto di difesa, abbia
 reso  impossibile  il  contraddittorio  medesimo avvalendosi ad nutum
 della facolta' di non rispondere.   Da  tale  pur  sintetica  analisi
 emerge immediatamente per un verso l'irragionevolezza del meccanismo,
 poiche' gli artt. 2, 3, 25 comma secondo, 101 comma secondo, 102, 111
 della  Costituzione  fondano  il principio di indefettibilita' di una
 giurisdizione  penale,  ed  in  particolare   di   un   dibattimento,
 finalizzati  ad  assicurare  la piena conoscenza da parte del giudice
 dei fatti oggetto del processo  affinche'  possa  essere  emessa  una
 giusta decisione - per altro verso, che il conflitto reale non e' tra
 diritto  di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui
 sono titolari i diversi soggetti e, per altro verso  ancora,  che  il
 conflitto  in  questione  e' stato erroneamente risolto a danno della
 giurisdizione.
   E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta' di  menzogna)
 possono  essere  indirettamente  tutelati  in  tanto  in  quanto  non
 consentano di bloccare ne' l'esercizio  dell'azione  ne'  l'esercizio
 della giurisdizione, ma solo come diritto dell'individuo ad astenersi
 dal   collaborare   con  gli  organi  preposti  alla  verifica  della
 responsabilita' penale.  Quindi i contemperamenti volti  a  risolvere
 il  problema  del  conflitto degli interessi contrapposti non possono
 che essere ricercati su altri piani.  Ed invero, lo si e' piu'  volte
 detto,  il processo introdotto nel 1988 - tendenzialmente accusatorio
 -, ha fatto proprio  e  valorizzato  come  principio  cardine  quello
 dell'oralita' - id est, formazione della prova in dibattimento, cioe'
 nel  contraddittorio delle parti di fronte al giudice terzo investito
 del potere di decidere nel merito del processo -. Cio',  tra  l'altro
 in  armonia  con  il disposto dell'art.   6, comma 2, lett. d), della
 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'intendimento
 di una maggiore salvaguardia  del  contraddittorio  nella  formazione
 della  prova,  del resto, e' apparso uno degli scopi fondamentali che
 hanno mosso l'azione del legislatore del 1997.  Seppure  a  mezzo  di
 meccanismi   processuali   irrazionali   e'  palese  l'intenzione  di
 costruire il contraddittorio,  sub  specie  di  diritto  all'esame  e
 controesame, come diritto delle parti.  Tanto premesso, e' pero' pure
 palese  che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio,
 quando  esso  assume  forma  genetica  della  prova  cioe'  la  forma
 dell'esame  incrociato,  e'  che il soggetto che vi e' sottoposto sia
 gravato dell'obbligo di  rispondere  alle  domande  che  gli  vengono
 rivolte.  Se  tale  condizione  non  sussiste,  invero, si concede al
 soggetto in  questione  il  potere  di  vanificare  l'altrui  diritto
 all'esame  e  controesame.    D'altra  parte  e' scontato, almeno nel
 nostro ordinamento processuale penale, che elementi di accusa possano
 provenire  da  coimputati  od  imputati  in  procedimento   connesso,
 peraltro  titolari,  come  tali,  della  facolta'  di non rispondere.
 Ebbene, mentre la concessione  alle  parti  di  un  diritto  di  veto
 rispetto    all'acquisizione    delle    dichiarazioni   rese   senza
 contraddittorio dagli  imputati  in  procedimento  connesso  divenute
 irripetibili   finisce   per  ledere  irreparabilmente  il  razionale
 esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della  giurisdizione
 e  lo  scopo  stesso  del processo, la acquisizione immediata di tali
 dichiarazioni finisce per ledere il  diritto  di  azione  e/o  difesa
 delle  parti  sub  specie  di diritto all'esame ed al controesame. Si
 privano le parti del  potere  di  fare  domande,  ricevere  risposte,
 dialettizzare,  rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito nelle
 indagini attraverso le contestazioni.  Cio' posto - considerando come
 fondamento  della  costruzione  ordinamentale  da  un  lato la stessa
 prospettiva  del  legislatore  del  1988   e   del   1997   e   cioe'
 l'intangibilita'  del  diritto  al  contraddittorio  e, dall'altro, i
 principi   di   uguaglianza,   legalita',   obbligatorio    esercizio
 dell'azione   penale,   funzione   conoscitiva  del  processo  e  del
 dibattimento,  indefettibilita'  della   giurisdizione   -,   diviene
 irrazionale   riconoscere,   al   coimputato   od   all'imputato   in
 procedimento  connesso  che  abbiano  reso  al   pubblico   ministero
 dichiarazioni  che  costituiscono  elemento  indiziante  a  carico di
 determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel  dibattimento
 a  carico di quei soggetti.  In tali limiti non appare manifestamente
 infondata, in relazione agli artt.  3  e  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale degli artt.
 210,  comma  4, e 513, comma 2, c.p.p.  E' superfluo sottolineare che
 un'eventuale  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  delle
 norme predette e nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti
 di  esercitare  il  proprio diritto all'esame - con le correlative ed
 eventuali contestazioni -, mentre non introdurrebbe per gli  imputati
 in  procedimento  connesso  l'obbligo  di  dire  la  verita',  con le
 correlative  sanzioni.  Dichiarazioni  rese  in  sede  di   esame   e
 contestazioni  sarebbero  ovviamente  valutabili  dal giudice ai fini
 della decisione.   In sostanza, l'unica  via  razionale  aperta  alla
 soluzione  del  problema  in questione - posti i vincoli di principio
 dell'indefettibilita'    della    giurisdizione,    dell'obbligatorio
 esercizio   dell'azione   penale,   della  funzione  conoscitiva  del
 processo, del diritto di difesa degli imputati e  degli  imputati  in
 procedimento  connesso  -  e'  quella  di  ritenere  che, a fronte di
 dichiarazioni indizianti rese da un soggetto nei confronti di  altri,
 il  diritto  di  difesa  del dichiarante si affievolisca di fronte al
 diritto di difesa dei chiamati in causa - sub specie  di  diritto  ad
 interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro
 -.  La  ragionevolezza  di  tale  affievolimento si apprezza anche in
 considerazione del fatto che, quando in  sede  penale  -  indagini  o
 dibattimento  -,  un  soggetto  sottoposto  ad indagine o un imputato
 rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato
 esercita in quel modo preciso il suo diritto di difesa, con  tutti  i
 benefici   e   gli   inconvenienti   del   caso,   dall'altro  impone
 all'autorita'  giudiziaria   (art.   112   della   Costituzione)   di
 approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini
 sia  di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in sede
 cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti
 all'accertamento.  Date le conseguenze di  un  tale  comportamento  -
 universalmente  note a qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere
 il dichiarante da una assunzione  di  responsabilita'  che  comporti,
 quanto  meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in sede
 di esame e  controesame.    Del  resto,  il  diritto  di  difesa  del
 dichiarante non e' del tutto cancellato, posto che egli manterrebbe -
 in  quanto  non  trasformato  in testimone, anche se con i limiti del
 caso (artt. 367 e ss. c.p.)  - la facolta' di dare versioni  diverse,
 ritrattare,  perfino  mentire,  facolta'  pure essa ritenuta, fino ad
 oggi, espressione del diritto di difesa.  D'altro  canto  proprio  le
 virtu'   euristiche   dell'esame  dibattimentale  -  nelle  quali  il
 legislatore mostra  di  riporre  la  massima  fiducia  -,  oltre  che
 l'intero  sistema processuale nel suo complesso garantiscono piu' che
 a sufficienza dal pericolo che  le  menzogne  dibattimentali  vengano
 recepite  in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo rispetto
 al livello che esso attinge quando  vengono  acquisite  dichiarazioni
 assunte  da  una parte senza contraddittorio e divenute irripetibili.
 Al  legislatore  rimarrebbe,  comunque,  sia  la  valutazione  se  il
 dichiarante-accusatore  debba  o  no  essere equiparato al testimone,
 sia,  in  caso  contrario,  la  decisione  circa   l'introduzione   -
 ovviamente   opportuna   poiche'  costituente  una  forma  di  tutela
 dell'effettivita' del contraddittorio -  di  un  nuovo  reato  contro
 l'amministrazione  della  giustizia avente come fattispecie obiettiva
 l'omessa risposta a domande rivolte nel corso dell'esame ad  imputati
 in  procedimento  connesso  che  abbiano  reso  al  p.m. od alla p.g.
 dichiarazioni indizianti a carico degli imputati.
   Occorre infine notare che la questione di legittimita'  di  cui  si
 discorre  e'  stata trattata per ultima per mera comodita' espositiva
 dei complessi  problemi  sottostanti  a  quelle  dianzi  considerate.
 Tuttavia  essa si pone come preliminare rispetto a quella concernente
 l'art. 513, comma 2, come modificato dall'art. 1, legge  n.  267  del
 1997.  E' chiaro infatti che, qualora venisse accolta la eccezione di
 cui  qui  si discorre, verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali
 su cui e'  costruita  l'attuale  disciplina  dell'acquisizione  delle
 dichiarazioni   degli   imputati   in   procedimento  connesso  e  si
 determinerebbe immediatamente,  in  base  a  questo  dato  nuovo,  la
 necessita'  di  verificare  la  compatibilita'  costituzionale di una
 disciplina  che  affida  alla  volonta'  delle  parti  il  potere  di
 interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi
 -  a questo punto illegittimamente -, rifiuta di rispondere.  Ritiene
 il Collegio  che  tutti  i  motivi  che  rendono  non  manifestamente
 infondata  la  questione  concernente  l'attuale testo dell'art. 513,
 comma 2, c.p.p., non possano che  essere  ribaditi  con  forza  ed  a
 maiori  anche  con  riferimento  a questa nuova situazione.   Inoltre
 l'illegittimo rifiuto di rispondere puo' conferire in  astratto  alle
 precedenti  dichiarazioni  o  particolare credibilita' - perche' sono
 acquisiti elementi dai  quali  si  ricava  che  l'imputato  di  reato
 connesso  ha rifiutato di rispondere a causa di minacce od offerte di
 utilita' ovvero "risultano altre situazioni che hanno compromesso  la
 genuinita'   dell'esame"   (art.  500,  comma  5,  c.p.p.)  -  oppure
 particolare inaffidabilita', potendosi ipotizzare  che  l'illegittimo
 rifiuto   di   rispondere   sia   assimilabile   ad  una  attendibile
 ritrattazione.   Orbene, un problema  del  genere  appare  ovviamente
 irresolubile in astratto - cioe' mediante disciplina legislativa - e,
 per sua natura, non puo' che essere risolto caso per caso nell'ambito
 del  singolo  processo  e, cioe', sottoposto prima al contraddittorio
 delle parti e poi al razionale e motivato  convincimento  giudiziale,
 affinche'  sia  resa  una giusta decisione nella situazione concreta.
 Si deve concludere, quindi, che accolta quest'ultima  eccezione,  non
 e'  manifestamente  infondata  la questione di legittimita' dell'art.
 513, comma 2, c.p.p. - come sostituito dall'art. 1, legge n. 267  del
 1997  -  nella  parte  in  cui  subordina  al  consenso  delle  parti
 l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali  degli  imputati
 in procedimento connesso che comunque si rifiutino di rispondere.  E'
 appena  il  caso di rilevare, infine, che, come si evince agevolmente
 da quanto detto, le questioni di legittimita ritenute rilevanti e non
 manifestamente   infondate   vengono  sollevate  in  subordine  l'una
 rispetto all'altra.